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Miserere

Introduzionemiserere

Nel Miserere di G. Rouault è leggibile un articolato ‘racconto’, o ‘discorso’, per immagini e didascalie, con significati assegnati alle singole tavole, a gruppi di tavole e all’insieme. È in sostanza il racconto della misericordia con la quale Dio risponde alla miseria dell’uomo, mandando il Figlio per fare di noi peccatori un popolo di salvati e di figli. Il Miserere racconta dunque (è il soggetto) non una storia, ma ‘la storia sacra’; e in quanto tale ha un contenuto teologico, da riconoscere all’autore, alla sua formazione e alla sua maturità, anche teologica.
Il Miserere, di Georges Rouault, è una serie di 58 incisioni, ciascuna corredata da una didascalia, con un ordine sequenziale stabilito tra le tavole, ordine da rispettare per una corretta lettura. Ogni tavola (immagine e didascalia) ha anche una sua autonomia, ma non se ne può cogliere pienamente il significato senza considerare il contesto (le altre tavole) e le correlazioni stabilite dall’artista nel contesto.

Le 58 tavole di questo album sono state incise da Georges Rouault, tirate dal 1922 al 1927 da Jacquemin, tipografo a Parigi, per iniziativa di Ambroise Vollard e da lui conservate fino alla sua morte. Avendo le circostanze della guerra causato la perdita e il deterioramento di un certo numero di copie, l'edizione della presente opera è stata limitata a 425 esemplari numerati da 1 a 425 e a 25 esemplari fuori commercio da I a XXV.

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Prefazione di Georges Rouault all'opera

Io dedico quest'opera al mio maestro Gustave Moreau e anche alla mia coraggiosa e amatissima madre che, al prezzo di dure veglie, agevolò i miei primi sforzi al crocevia delle strade per le quali, giovane pellegrino dell'arte, molto sprovveduto, andavo errando.
Aggiungerei che, in forme differenti, ambedue avevano la stessa bonomia sorridente e incoraggiante, ben lungi da questi tempi di rancore e di offese in cui sembra ormai che dobbiamo vivere.
La maggior parte di questi soggetti risalgono al 1914-18. Essi furono dapprima eseguiti sotto forma di disegni a inchiostro di China, trasformati più tardi in pittura per desiderio di Ambroise Vollard. Costui dapprima fece trasferire sul rame tutti i soggetti. Gli sembrava conveniente che il rame ricevesse anzitutto un'impronta del mio disegno. Partendo di là, e con quanta fatica, ho tentato di salvare il ritmo e il disegno iniziale. Su ogni tavola, con più o meno fortuna, senza tregua né riposo, ho lavorato con i più svariati strumenti: non c'è alcun segreto. Insoddisfatto, riprendevo il soggetto all'infinito, realizzando fino a dodici – quindici stati successivi; avrei voluto che tutti fossero della stessa qualità. Confesso anche che mi ci ero attaccato e che non rimasi del tutto insensibile alla richiesta di un ambasciatore degli Stati Uniti che voleva indorare alcuni rami e farli incastonare nel muro dell' Ambasciata.
Le tirature, che io sorvegliavo con la massima cura, furono terminate nel 1927 e più tardi Ambroise Vollard fece biffare i rami.
Dopo aver atteso vent'anni per la pubblicazione dell'opera, differita per le circostanze, ebbi la fortuna di recuperare le incisioni nel 1947 e di poter affidare l'edizione del libro alla casa editrice "L' Étoile Filante".
Si era parlato di un testo da far scrivere ad André Suarés, ma sfortunatamente egli non poté realizzare questo progetto.
La morte di Ambroise Vollard... la guerra... l'occupazione e le sue conseguenze e infine il mio processo furono causa di ritardi infiniti. Malgrado un certo ottimismo di fondo, ho avuto momenti neri nei quali ho temuto di non vedere mai la pubblicazione di quest'opera da così lungo tempo terminata e alla quale ho sempre attribuito un' essenziale importanza. Gioisco di arrivare a buon porto prima di sparire da questo pianeta.
Se ci si è mostrati ingiusti verso Ambroise Vollard, conveniamo che aveva gusto e viva inclinazione a fare dei bei libri, ben lungi dai record di velocità: gli ci sarebbero voluti tre secoli per condurre a buon termine le opere e le diverse pitture che si augurava di affidare a persone senza preoccupazioni dei nostri limiti terreni.

Questa è la prima delle 58 tavole che compongono, come un libro, il Miserere dell’artista francese Georges Rouault. Il libro è in due capitoli e il primo s’intitola Miserere, come è scritto nella parte alta della tavola. È l’inizio del Salmo 50 della Bibbia, come leggiamo nella didascalia: «Miserere mei Deus/ secundum magnam misericordiam tuam». Si può dire che la prima parte del versetto (Miserere mei...) è un’ implorazione; ma alla luce della seconda (secundum...misericordiam...) è annuncio di salvezza: «hai avuto misericordia di me, Signore». Dice infatti il salmista: «Non mi ha negato la sua misericordia» (Sal 66, 20); e «Pesano su di noi le nostre colpe/ ma tu perdoni i nostri peccati» (Sal 65, 4). Tu dunque hai pietà di noi; e mandi tuo Figlio; perché possiamo dire: «Magnificat! Miserere!». All’implorazione segue la risposta di Dio, che sembra una maschera (una nuvola) indifferente, ma (come appare nella parte inferiore) fa germogliare dalla terra il Salvatore del mondo (Is 45, 8). Vediamo, nella parte bassa della tavola, la testa di una figura, che sta in un cunicolo. È come un seme, che deve stare sotto terra durante l’inverno: deve marcire, per far nascere una nuova pianticella a primavera. Chi è questa figura che soffre e invoca: Abbi pietà di me, o Dio!? 

Il cielo e la terra. Non la profondità del cielo, che non si può rappresentare, ma una nuvola, una maschera, un angelo: metafora del cielo. E non la superficie della terra: il paesaggio; bensì la profondità della terra, o un cunicolo (come una tomba) sotterra. Chi è mai disceso nella profondità della terra? È il seme, deposto a morire. Qui è una figura, ridotta a una testa umiliata, arricciata (quasi fetale). È questa tavola il frontespizio del primo dei due capitoli del Miserere di Georges Rouault.1 La serie va letta come un libro per immagini e didascalie: ogni tavola ha un suo valore autonomo, ma anche un legame con le altre, formale e significativo; e la lettura deve essere contestuale, se si vuole capire ciò che l’autore ha voluto esprimere in una serie di incisioni e in definitiva, appunto, in un libro; curato da lui con ‘L’ Étoile filante’ nel ‘51; nel ‘66 ripubblicato in italiano dalla Pro Civitate Christiana di Assisi; infine ‘squadernato’ in una mostra, realizzata da Elio Ciol, che può considerarsi l’ ‘edizione didattica’ (la più adatta a facilitare la lettura globale) dell’opera.

Tavole 2-4

Nella seconda e terza tavola vediamo alzarsi la figura. È un uomo coronato di spine, flagellato: è Gesù. È Gesù nel tempo (circa duemila anni fa) della sua passione e morte. Leggiamo però: Gesù... sempre flagellato... Perché ‘sempre’? La spiegazione sta nella quarta tavola, dove si legge che Gesù povero e vagabondo, si rifugia nel tuo cuore. E qualche volta i piedi fanno male al punto che non si vorrebbe camminare (come si vede nella tav. 4): quando soffriamo, lui soffre con noi. Ci accompagna e ci spinge, anche se non lo vediamo, sulla strada della vita. E ci insegna che la nostra sofferenza, anzi la nostra vita, può essere donata agli altri, come lui ha fatto soffrendo e morendo per noi; perché si arrivi tutti noi un giorno – cammina, cammina! – a una patria che non è sotto terra: a una ‘terra promessa’, che è in cielo.

La figura qui emerge: identico (umiliato) è l’atteggiamento della testa, che si espande e si rivela coronata di spine. Prende nome: Jesus honni.

Annota l’artista: «Christ couronné d’épines (Tête penchée à droit)». Il movimento a emergere della figura, evidente se si considerano insieme le tavole da 1 a 3, accenna insieme alla nascita (dalla terra) e all’andare a morte (al Calvario). L’enfasi espressionista della testa riduce lo spazio sovrastante e cancella ogni traccia del cielo. Restano (plumbee) le fasce di cancellazione, incombenti sull’orizzonte. Questo è un chiarore che, tra le spine, sostituisce l’aureola prescritta. In quel chiarore, ogni traccia è un dardo; ma il dolore lancinante è più, sul busto stretto e consistente, nei tratti essenziali del volto scavato, in larghi segni neri, e folgorato dalla luce. Premonizioni della tragedia (il monte) accompagnano la figura.

Il ‘discorso per immagini e didascalie’ procede da sinistra a destra. Per le immagini: ascende la figura e procede verso destra. Il soggetto è sempre la Passione di Gesù. Per le didascalie: i puntini di sospensione a tav. 2 e l’iniziale minuscola a tav. 3 invitano a procedere. Alla ‘cancellazione del cielo’, della 2, corrisponde qui la figura ‘ristretta’ (obbligata) e senza respiro al margine superiore. Si notino i segni della flagellazione. Inoltre, il corpo è piagato e appiattito (come ‘su muro’) anche per una accentuazione dell’ acquatinta nell’incisione. La semi-distruzione della figura suggerisce l’andare di Gesù verso la morte.

Il ‘discorso’ per un aspetto sembra interrompersi: l’immagine della tavola 4 non è più della Passione di Cristo, ma di due personaggi di un tempo vicino al nostro. Peraltro ci sono indicazioni di continuità. Come Gesù, i due sono in cammino. 

La didascalia della tav. 4 è in continuità con la precedente, ancora mediante i puntini di sospensione e l’iniziale minuscola: il soggetto è lo stesso. Dunque, nonostante l’apparenza, nei due contemporanei Rouault intende rappresentare Gesù della Passione: il sempre flagellato. 

Osserviamo che la figura dell’adulto, che procede verso destra, è ristretta al margine superiore dell’immagine e caricata di un peso, che ricorda la croce. Anche il loro è un cammino di sofferenza: le gambe si gonfiano, il bambino rifiuta di camminare. Il tema (biblico) rinvia all’Esodo: al faticoso cammino del popolo di Dio nel deserto. Anche lì doveva essere sospinto, perché non vedeva: non credeva al realizzarsi della promessa. Il bambino qui è fermo: volta le spalle e vede soltanto buio, nella direzione di marcia. È un ‘punto fermo’ (come il punto che chiude la didascalia) anche nel discorso: chiude un periodo che è stato un’ introduzione teologica.

Tavole 5-8

Vediamo ora altre quattro tavole: sono due figure nude e due vestite o, diciamo, mascherate. È un discorso sulla condizione dell’uomo, che ne considera la povertà (nudità) anzitutto come solitudine; e poi per lo stesso essere nel mondo, apparentemente privo di senso e di preventivo consenso. L’uomo, non sopportando questa sua nudità, si maschera. Il clown si dipinge sul viso una maschera; e sotto c’è scritto: Chi non si maschera? Bisogna capire che, anche se non dipingiamo il nostro viso come il clown, il viso stesso è una maschera; con la quale ridiamo o facciamo ridere, oppure piangiamo, o ci presentiamo in un certo modo, magari per nascondere i nostri sentimenti e i nostri pensieri quando non li vogliamo mostrare. Un uomo, o una donna, si vestono e si adornano talvolta per mostrare la loro gioia, e anche la loro ricchezza. I primi due, che sono nudi, anche nell’atteggiamento si mostrano poveri e infelici. Poi c’è la maschera di un re: di uno, cioè, che è potente; e non dovrebbe essere né povero né infelice. A guardar bene, però, non si tratta di una maschera felice: è grottesca e ridicola; e poi, siamo sicuri che dietro la maschera ci sia l’uomo? Dietro la maschera del clown, invece – come dietro il viso con il quale si presenta ogni uomo – c’è l’uomo. L’ uomo poi, come abbiamo visto, ha nel cuore Gesù. E anche Gesù, che si fece conoscere anzitutto come un bambino – e crebbe e diventò un uomo –, nasconde e rivela una realtà più profonda, essendo il Figlio di Dio.

All’ introduzione teologica (tav.1-4) ne segue una antropologica (tav.5-8). 

La prima figura nuda - e contromano rispetto al verso (da sinistra a destra) di lettura - sta a significare, in prima interpretazione, la solitudine, nell’aspetto di carenza di solidarietà umana e di amore. Il concetto è espresso sia nell’immagine (figura sola) che nella didascalia (Solitaire...). Il nudo maschile è preso dagli atleti del circo; ma qui Rouault non deforma il corpo, come fa generalmente per esprimerne la sofferenza; anzi, ne fa risaltare la bellezza: cerca il contrasto tra bellezza (corpo d’amore) e solitudine (assenza d’ amore). Il corpo è nudo anche in relazione al tema delle tavole in esame (5-8): tema del corpo che si veste, o della maschera. Ancora, il corpo nudo rinvia a quello di Cristo (tav.3) e dunque alla Passione. Il gesto della mano fa chinare il capo alla figura, ed è ancora un richiamo al Cristo della tavola 3. La solitudine ha anche, ovviamente, un significato positivo; in particolare per Rouault, che si considerava ed era un ‘Solitario’. Si può certamente leggere qui un riferimento a persone più o meno legate ai cosiddetti «Solitari di Port- Royal», di tradizione pascaliana.

Il secondo nudo dell’introduzione antropologica è ‘plastico’ anche più del primo: ambedue singolarmente contrastano con la figura piatta, ‘lebbrosa’ e in dissoluzione, del Cristo (tav.3) cui questi nudi fanno riferimento. Alla testa abbassata del Solitario corrisponde quella alzata del Forzato: essa è rivolta al cielo e insieme ristretta (schiacciata) al margine superiore. Collo gonfio e labbra serrate nell’angoscia. Ombre possenti accompagnano dal basso l’urlo, che l’intera figura rivolge al cielo. È, per un aspetto, il «Prometeo incatenato». Si noti l’enfasi clavicolare: espressione del ‘nodo alla gola’, o di una ‘trave’ (presentazione anteriore simbolica di un peso insopportabile alle spalle) o di una vera e propria ‘gogna’ – collare di ferro che si poneva stretto alla gola dei rei esposti alla berlina –: il forzato è esposto allo scherno.

C’è un notevole precedente, di questo soggetto, in Rouault; ed è uno dei primi dipinti: Sansone che gira la macina (olio, 1893). Il Forzato non è – come il Solitario – solo: la sua figura è ambientata in un paesaggio naturale e umano ugualmente drammatico, suggerendo che la condizione di forzato (radicalmente: ‘forzato a essere’) è di tutti e di tutto. Figure familiari compaiono per la prima volta, sul fondo, solidali a una casa, o una torre, dal volto spettrale. Annota l’artista: «Paysan avec enfants».

Ai due nudi contromano volge le spalle (nel verso di lettura) la maschera del re. Maschera di un improbabile re: dietro la maschera niente. Si veda infatti l’occhio ‘impossibile’; ma tutta la figura non è ‘umana’. 

La didascalia (iniziale minuscola) collega questa con le tavole precedenti: al drammatico ‘tutto tondo’ dei due nudi è contrapposta questa piatta e ridicola sagoma, impreziosita da decorazioni (dell’armamentario di Moreau). Nel significato, ridicolo è l’uomo che, non volendo ammettere la sua condizione (descritta nelle tav. 5-6) si fa re, ingannando anzitutto se stesso. Il re ingombra completamente lo spazio, mentre voracemente sembra cercarne dell’altro. Con la corona, poi, sconfina in cielo. La maschera è teatrale. 

Annota l’artista: «Ubu roi». Nasce infatti dall’ Ubu-Roy di A. Jarry: una commedia che aveva destato molto scalpore in Francia – la messa in scena è del 1896 – per il suo carattere satirico e burlesco nei confronti della borghesia e del potere. Gli «Ubu», per Rouault, sono tanti. Uno è il suo mercante d’arte: A. Vollard, col quale si era messo, per una specie di patto faustiano; e per il quale aveva accettato di illustrare il testo delle Réincarnations du Père Ubu (sarà pubblicato nel ‘32). ‘Ubu’, per Rou­ ault, è soprattutto il potere quando è oppressivo dell’uomo sull’uomo. Il re simboleggia il potere civile. Più avanti il Miserere attac­cherà magistrati (tav.11) e militari (seconda parte: Guerre).

Come il bambino (di spalle) della tav. 4 conclude il gruppo introduttivo teologico (tav.1-4) così il clown (frontale) della tav. 8 fa da punto e conclude l’introduzione antropologica (tav. 5-8). 

Questa è ancora formata da quattro figure: due ‘contro’ (non solo contromano), una ‘nel verso’ (non solo di lettura: è il re, ma riguarda un atteggiamento comune) e questa frontale. La presentazione del clown (alla corte del re) è solenne, tanto più nel commento generalizzante: Chi non si maschera? Qui ‘maschera’ non può essere inteso nel senso negativo della tavola 7 (pura finzione, inganno) ma in quello propriamente antropologico (linguistico). Col suo sguardo, il clown chiede di essere capito oltre la sua maschera (dipinta). C’è un riferimento autobiografico: il volto è sensibilmente un autoritratto: è il pittore che chiede di essere capito, oltre la sua pittura. È l’uomo (Chi non si maschera?) che chiede di essere capito, oltre il suo volto: chiede uno sguardo profondo. E non semplicemente uno sguardo che vada oltre le apparenze: maschera (etimologicamente: persona) è più che apparenza; e lo sguardo della fede coglie nella realtà dell’ uomo realtà più profonde (tav.1-4). 

Il tema della maschera, così inteso, si applica quale chiave di lettura al Miserere nel suo insieme. Per questo la tavola 8 è stata posta dall’artista a frontespizio del libro edito nel 1951. Come vedremo, è poi il ‘velo della Veronica’ che viene assunto dall’artista a segno trasparente del volto di Cristo, da riconoscere sul volto dell’uomo: di ogni uomo.

Chi aveva appreso l’arte e l’ispirazione dalle vetrate medievali sapeva cos’è trasparenza: è luce che il vetro lascia trasparire nella buia chiesa romanica, luce e colore che il grande vetro figurato lascia trasparire tra i piombi nella finestra gotica; dove l’equilibrio è tra il vetro che traspare e la figurazione e il colore che attenua e il contorno che nega e contiene la luce. La maschera è qui in definitiva l’aspetto e il significato immediato dell’opera, che rinvia a un altro aspetto e significato profondo: ma non tanto apparenza che rinvia alla realtà, quanto realtà (come l’uomo) che rinvia a una realtà più profonda: nell'uomo è Cristo, e in Cristo Dio. Si aggiunga che, se ho chiamato clown questo volto, mi rendo però conto che il pensiero di Rouault è più complesso. Le sue ‘maschere’ possono infatti avere significati molto diversi: ‘clown’ e Arlecchino ‘guidano il gioco’; ma Pierrot (l’ingenuo) e Pitre (il pagliaccio) sono piuttosto vittime della sorte.

Tavole 9-11

Ora un altro gruppo, di tre tavole, mostra l’uomo nella crescita, dall’infanzia all’adolescenza. Il tranquillo paesaggio della tav. 9 rappresenta un'età nella quale pare che tutto sia bello, cioè l’infanzia. Nella tav. 10 l’artista ricorda l’ambiente della sua infanzia; certamente non priva di sofferenze, se si guardano certi occhi sbarrati in primo piano. La tav. 11 rappresenta poi l’adolescenza come una specie di naufragio. L’albero, che nella 10 è dritto e imponente, nella 11 appare abbattuto e trascinato dall’oceano in tempesta. L’albero può essere forse una speranza di salvezza, per la figura femminile che è in balia delle onde; ma potrebbe invece essere un pericolo. 

Dopo il discorso sulla condizione dell’uomo (tav.5-8) eccone uno di carattere storico; in prima lettura sulla crescita umana (dall’infanzia alla maturità) e in una dimensione autobiografica; ma più profondamente sulla crescita cristiana: Cristo del Vangelo (infanzia del cristianesimo) – che la tavola 9 mostra in un «paesaggio biblico», o «mistico», sul lago di Tiberiade –, è fra noi e ci accompagna, fin dall’infanzia. La quale è un tempo in cui capita talvolta che la strada sia bella. Tutto è in pace: il paesaggio, naturale e umano, è sereno, disteso (orizzontale) ed essenziale. C’è un gruppo umano (donne e bambini) che incontra Gesù: nel linguaggio di Rouault sono «intimità cristiane». E c’è il lavoro dei pescatori. La natu­ra sembra accogliere felicemente – e protettiva­mente: si veda la linea dell’orizzonte, ripresa nell’atteggiamento di Gesù – gli umani. Tuttavia, a quanto pare, Gesù piange. E quel capita non lascia presagire nulla di buono. Dietro una maschera di serenità, come annota l’artista, «la nature est triste»: è nemica; e prepara tempesta (tav.11). Per Gesù stesso è l’alba sul lago di Galilea, ma ormai è vicina l’età della croce.

Più esplicitamente autobiografica della tavola 9 è la 10. Qui Rouault ricorda il natio villaggio di Belleville (diventato poi quartiere parigino); e lo chiama Sobborgo delle Lunghe Pene: realtà dell’infanzia, al di là del mito. Su questa ‘periferia’ Rouault si eserciterà spesso con grafica e pittura; in particolare in un lavoro -– Le Petit Banlieu – pubblicato nel 1929. 

Al paesaggio primitivo e aperto, disteso (lacustre) della tavola 9 subentra quello verticale e chiuso (urbano) della 10. Questa deriva non solo dalla tav. 9, ma dalla 6, soprattutto per la struttura. Il bambino dagli occhi gonfi, alla base del grande albero i cui rami arrivano al cielo, al centro della 10, non è solo figura della crescita umana. L’albero rappresenta, nella famiglia, la figura maschile; e nella 10 occupa la stessa posizione del ‘forzato’ della tavola 6; assumendone il significato e preparando quello della 12. 

Dalla confidenza evangelica della tavola 9 si va dunque all’ incombere, nella famiglia, della figura patriarcale: il padre, assente, incombe come potere e sicurezza antropologica. Questa struttura è complessivamente destinata alla crisi (tav. 11 e seguenti). Dalla tavola 9 la 10 deriva il gruppo (qui in ombra, sulla sinistra) di «intimità cristiana», nel quale si può riconoscere Gesù.

La tav. 11 mostra tutto il significato di quel capita della didascalia della 9. La serenità è provvisoria; ed eccoci al lago in tempesta, anzi al naufragio. 

Anche la didascalia della 11 è del resto pungente: ambedue sono tese a sfatare illusioni, a sollevare la maschera su realtà catastrofiche. Rouault pessimista? Occorre considerare il contesto: Rouault certamente vede nero, ma il suo sguardo (si vedano per esempio le tav. 4 e 8) va ben oltre. L’ atteggiamento del naufrago non è disperazione, ma - è come a mani giunte - estrema invocazione: «Miserere! »; alla quale, nella fede, Rouault trova risposta. Qual è il naufragio? 

Nel gruppo delle tavole in esame, la metafora è quella dell’adolescenza; ma vi sono altre dimensioni. In ogni tavola del Miserere è presente quella religiosa e cristiana: se l’albero è figura del padre, lo è anche di Dio; e il precipitare dell’albero accenna a una crisi che può essere, in particolare nell’adolescenza, anche di fede (si osservi che iconograficamente l’albero della 10 può essere albero della croce, figura del crocifisso) . Un’altra dimensione è propria del tema di cui sta trattando Rouault: la guerra. Il Miserere è stato concepito infatti in occasione di quell’ immane naufragio che fu la prima guerra mondiale. Infine Rouault, che è un artista, accenna qui alla profonda crisi, che vive dall’interno, dell’ arte contemporanea in generale, e della sua in particolare.

Tavole 12-13

Le tavole che abbiamo appena visto rappresentano la crescita umana, le due successive (12 e 13) significano l’uomo e la donna giunti a maturità, e il formarsi della famiglia. Nella quale, si sa, dovrebbe regnare l’amore; ma qui la vediamo drammaticamente divisa, perché lui volta le spalle. 

Con la tav. 12 l’artista, che ci ha parlato dell’uomo, e della sua crescita fino a maturità, tratta ora del peccato. Il peccato è spesso dovuto all’orgoglio, che è un peccato contro l’amore. Rouault scrive però: Il duro mestiere di vivere. Forse è la durezza della vita che ha reso cosi duro il cuore dell’uomo. 

L’amore è poi rappresentato splendidamente nella tav. 13, con la mamma che abbraccia il suo bambino. Ed è scritto: Sarebbe cosi dolce amare! 

La composizione della tav. 11 (diagonale e figura verso destra) conduce al personaggio contromano della 12, impostato sulla diagonale opposta. Tuttavia le due figure non si incontrano, perché l’uomo della 12 è introflesso: chiuso (a riccio) e bloccato verso l’esterno. Annota l’artista: «Dans les barbelés» (come impigliato nei reticolati). Per la posizione (contromano, scorcio da sinistra) l’introflessione e il nudo, e in parte per il significato, la figura principale di riferimento è nella tavola 5. Sono dei ‘solitari’. 

Questo della 12, però, in un senso ben più negativo. C’è probabilmente anche una dimensione autobiografica; ma principalmente si tratta di una riflessione antropologica e psicologica (sul diverso atteggiamento affettivo dell’uomo rispetto alla donna). Se si tiene conto del testo scartato (Individualiste...) e della tavola 13, in questa ‘solitudine da orgoglio’ Rouault intende rappresentare, non un peccato, ma ‘il peccato’ (come peccato contro l’amore) con riferimento a Gen, c. 3. Il fatto che l’artista abbia corretto la didascalia (il ‘giudizio’, che spetta solo a Dio) non incrina l’interpretazione e il riferi­mento biblico, che varranno (come si vedrà) per il resto del ‘racconto’.

Se le tavole 9-13 trattano della crescita umana, il gruppo 12-13 rappresenta l’approdo alla maturità e alla famiglia: all’amore; ma anche al peccato. Peccato del maschio? (tav. 12). Le tavole successive s’incaricheranno di smitizzare anche la donna; ma intanto la tav. 13, anche per il suo forte contrasto con la 12, fornisce un sia pure problematico ‘modello’. Con la tav. 13 arriva anche a maturità nell’artista – passato attraverso il periodo caratteristico ‘delle prostitute’ (cosiddetto «inferno» di Rouault, anni ‘10) e dopo il matrimonio con Marthe (1908) e la nascita delle prime due figlie (Geneviève e Isabelle) – un nuovo modo di rappresentare la donna. 

Il Miserere prende il via nel 1912, anno della morte del padre Alexandre e della nascita del figlio Michel. Dopo le introduzioni (tav.1-8) che utilizzano principalmente la figura maschile, il discorso si sposta sulla donna e sulla maternità (forse di una bimba) che qui emerge splendidamente. Annota l’artista: «Mère et enfant». Perché ‘problematico’ modello? Il contesto (maturità nella famiglia) obbliga al riferimento biblico (in particolare a Gn 2, 24) laddove Dio fornisce un modello: «Saranno due in una sola carne», dal quale scaturisce ogni altro modello di amore. Il contesto (tav. 12-17) si riferisce però anche al peccato (Gn 3, 1-7) che Rouault indica qui (l’uomo volta le spalle) come peccato contro l’amore. Si ricordino le tavole 9 e 11: il cielo è talvolta (provvisoriamente) sereno, ma si prepara la bufera. Rouault porge il modello, che nasconde un’altra realtà, e anzitutto una realtà amara. Donde quel figlio, se l’uomo volge le spalle? Quale modello, se la famiglia è disunita? Qui però Rouault – c’era da aspettarselo – nasconde un’altra prospettiva, se ha ragione23 chi ha visto nella maternità della tavola 13 una Vergine col Bambino (la composizione allude a una ‘mandorla’ ascendente). Questa fornirebbe anche un’altra interpretazione della 12, dove la figura è quasi di un vecchio: iconograficamente, la coppia delle tavole 12 e 13 potrebbe suggerire una ‘Sacra Famiglia’.

Tavole 14-17

Abbiamo visto il peccato dell’uomo; ma anche la donna, così dolcemente raffigurata nella tavola 13, nelle quattro successive ha la sua parte. Abbiamo così (nella 14) la donna cosiddetta ‘del piacere’. La sua bellezza è stravolta (nella 15) da una smorfia: In bocca che fu fresca il gusto del fiele. È "l'amaro in bocca" del piacere quando è frutto del peccato. Nella tav. 16, la Dama dei quartieri alti (altezzosa, anche nella posizione del mento) crede di avere anche in cielo un posto prenotato. Le gran dame avevano infatti, nelle chiese di Francia, riservato un palchetto. Ultimo campione è l'emancipata (tav. 17) che per Rouault è simile a un galletto, molto sfasato, che: Alle due canta mezzogiorno. 

Il tema delle prostitute, in Rouault, continua oltre il periodo più caratteristico; ed eccone una dei primi anni ‘10. 

Anche il ‘tipo’ si evolve, oltre il ‘fare brutto’ di quel periodo. Si evolve, dopo il 1908, in generale il tipo femminile (come altri tipi) e in particolare quello della prostituta. Rouault impiega il ‘fare bello’ (grazioso, sensuale) e il ‘decorativo’, il ‘serpentino e l’ ‘arabesco’, in una spregiudicata ricerca espressiva del profondo; e anche del Male. La linea del profilo si presta particolarmente: Rouault cerca il profondo anche accostando (talvolta in duo, o trio) presentazioni frontali (tav. 8, 17) e profili (tav. 14, 16) e scorci (tav. 15). Si veda l’enigmatica tav. 48. 

Sul tema della prostituta, Rouault è fortemente influenzato da Bloy; e più ancora da Baudelaire. Si tratta di ricerche, come quella per l’illustrazione di Les Fleurs du mal (non ‘al di là’, ma ‘al confine’), tra sacro e profano e tra Dio e Satana. I medesimi stilemi evolutivi trovano impiego in figure dal significato antitetico, come nelle tavole 13 e 14.

La tav. 15 deriva dalla 14, ma anche dalla 7: come nel ‘re’ della 7, la smorfia distorce il profilo; ma il significato è antitetico: lo scorcio che ne risulta nella 7 è ‘impossibile’ (come l’occhio, più che nella 14); poiché il re è pura maschera (di un uccellaccio maligno, ghignante: Satana) mentre nella 15 è una potente maschera di dolore. 

Essa umanizza l’apparentemente semplice profilo della ‘incipriata’ della 14. L’operazione (umanizzante) è simile a quella che porta dal re al clown (tav. 8). La didascalia della 15 si incarica di collegarne il significato a quello generale del Miserere: nel dolore umano, anche conseguenza del peccato, è Gesù che soffre. Il fiele infatti rinvia alla crocifissione (Mt 27, 34).

Un altro profilo; e il ripristino (anzi l’accentuazione) della maschera dell’incipriata (tav. 14). Qui il mento è più alto: se di prostituta si tratta, è di alto bordo; ma la figura - sottolineata dalla didascalia - è diversa e ben più pungente. L’altolocata è, come il re, lo specifico oggetto della satira di Jarry, che attacca la borghesia. 

Ma c’è dell’altro, per ciò che concerne Rouault: la figura della tavola 16 è veramente tragica; e la didascalia, apparentemente oltraggiante, potrebbe sottendere (come quella della 15) un significato cristologico. Un Christ aux outrages?

Se tragica è la figura della tavola 16, almeno altrettanto lo è quella della 17, che chiude frontalmente il quartetto femminile (14-17) analogamente a quanto fa il clown nel quartetto 5-8. Del resto la didascalia della 8 – Chi non si maschera? – ben si applica a questo ‘mascherone’, tale che la figura precedente (tav.16) pare nuda. Dunque un clown-femmina? Clown o pagliaccio? Probabilmente, nonostante l’emancipazione (Femme affranchie) non è che una vittima.

La ‘sfacciata’ guarda bene in faccia: non ha più niente da nascondere. Quanto al sesso, è incerto. Così conciata infatti è lecito dubitare cosa nasconda il trucco. Anche la didascalia è ambigua: la chiama ‘femmina’, ma poi l’apostrofa manipolando l’ espressione idiomatica francese, riferita a persona curiosa (sfasata): – Va à chercher midi à quatorze heures – in modo da farne (chante midi) un galletto.

Tavole 18-20

Il racconto delle miserie umane, che Rouault ha fatto, si conclude in un processo. Qui l'artista disegna un condannato (tav. 18); e il suo avvocato (tav. 19) che è una specie di demonio, o comunque non proprio una persona per bene. Il processo avviene (tav. 20) come scrive Rouault: Sotto un Gesù in croce dimenticato. L’artista frequenta i tribunali: ne disegna gli imputati, i giudici, gli avvocati. Miserabili appaiono soprattutto gli imputati: accusati dei loro crimini e condannati da persone apparentemente irreprensibili. L’artista nella tav. 20 ricorda che dai tribunali di Francia è stato tolto il Crocifisso. Tornando a guardare il Cristo flagellato (tav. 3) ci accorgiamo che, dopo essersi caricato sulle spalle i peccati degli uomini e delle donne (tav. dalla 12 alla 17) conclude qui la sua passione sulla croce.

La figura della tavola 18 – per il verso, il taglio, l’atteggiamento del corpo, l’occupazione dello spazio e il nudo – rinvia a quella di Gesù sempre flagellato della tav. 328; ma nettamente di­versa è nella chioma, che nella 18 quasi manca. Quasi calvo è anche il nudo della tav. 12. Ora, se la 12 significa peccato, la 18 è processo e condanna. E se Gesù (tav. 3) si è caricato dei nostri peccati, il processo è ‘processo a Gesù’ (e sua condanna) che ‘sempre’ si rinnova. Potenti ombre drammatizzano il corpo dell’uomo violato nella sua dignità, umiliato e muto, eppure in rivolta. Qualcosa di tozzo (mutilato, compresso) blocca la figura, giocata tra profilo e scorcio. Preso (per il collo) mentre scappava, la sua testa è una maschera essenziale: naso aquilino schiacciato, bocca e mascella emotive e aggressive, ampia fronte nella luce abbacinante (da terzo grado).

Rouault frequenta i tribunali e ne disegna e dipinge i personaggi dall’inizio del secolo30. Faceva non solo rumore in Francia, dal 1984, il caso Dreyfus (trascinatosi fino al 1906): la figura cristologica del condannato della tav. 18 potrebbe alludere a Dreyfus (ebreo). 

Quello della tav. 19 non è un giudice, ma un avvocato. Il condannato doveva affidarsi a lui, ma non l’ha fatto: è un incosciente (un’altra versione dice: innocente) ed è scappato. L’atroce figuro, del quale bisognava fidarsi, fa il paio con il ‘re’ della tavola 7: accanto al potere civile è quello del tribunale, che può essere anche peggiore. ‘Un uccellaccio’, scrivevo dell'"Ubu-Roi" (tav. 7): dal naso appuntito (a becco). Così è anche quello dell'avvocato. E la bocca a becco, dai denti smaglianti, è serpentina e vuota quanto le ‘frasi’ che declama. 

Una linea nera grava sul profi­lo, raddrizzandolo e appuntendolo pericolosamen­te. Anche l’occhio è vuoto (ermeticamente chiuso): il paffutello principe del foro non vede, ma parla e si ascolta. «Uomo rosso» – l’espres­sione è di Rouault –: satanico e sanguigno, appartiene alla categoria dell’ ‘altolocata’ della tav. 16, per l’erezione del mento. Alta sull'imbuto del collo è la testa (oscena) come un’arma. È Satana, «faccia a faccia» con Cristo.

Cosa pensi Rouault dei crocifissi tolti dalle aule dei tribunali, o più in generale della laicizzazione dello stato, ha scarsa importanza nella lettura del Miserere: il fatto è assunto dall’artista in modo puramente strumentale, a significare qualcosa di molto più importante e più grave: l’oblio, non dell’oggetto liturgico, ma di Cristo crocifisso (tav. 20) nel quale è il senso della vita e della morte, il perdono e la salvezza, perché Cristo è risorto (tav. 21). 

Scrive Papini: «Cristo è tradito e – più grave di ogni offesa – dimenticato». Per il carattere dell’immagine, oltre che per il soggetto, la tav. 20 si collega facilmente con la 3, come è necessario (mettendo tra parentesi la sequenza 4-19) per coglierne il significato: è, come la 3, immagine piagata da una ‘lebbra’ che la distrugge, metafora della Passione; sicché la tav. 20 riprende il racconto della Passione di Gesù (interrotto con la 3) e lo porta sulla croce. Immagine fosca: della morte, rischiarata da bagliori. La metà superiore è rischiarata intorno alla croce (è un ‘alone’ o fondo, si direbbe con Congdon). Figura in solitudine, il corpo prosciugato e annerito (carbonizzato). La croce ricorda l’albero della tav.10 e come questo tende al cielo, il quale però qui al margine è oscuro; di una oscurità che circonda il chiarore che sta intorno alla croce. Il paesaggio - nello spazio lasciato dalla larga croce nera - è appena accennato. Sotto l’orizzonte serpeggiano segnali indecifrabili e sinistri.31 Il raddoppio della larghezza della verticale della croce e l’eliminazione della scritta regale «INRI» (è un ‘puro’ Venerdì Santo e Gesù non regna dalla croce) esprime la scomparsa del cielo (vedi questo in altro modo nella tav. 2) appena corretta da un abbozzo di aureola.

Si concluse sulla croce la vita di Gesù? Noi sappiamo cosa accadde dopo tre giorni. La figura della tav. 21 è quella del Risorto. Sotto l’immagine bellissima di Gesù risorto Rouault scrive: È stato maltrattato e oppresso e non ha aperto bocca. Questo ci consente di riassumere il racconto fatto sinora: colui che abbiamo visto coronato di spine (tav. 2) e flagellato (tav. 3) si rifugia nel nostro cuore e cammina con noi (tav. 4); ma come ciò è possibile? Ecco la risposta: si è caricato dei nostri peccati ed è morto in croce (tav. 20) e il terzo giorno è risorto (tav. 21): ora egli è tutta la nostra speranza, di risorgere in lui un giorno anche noi. 

Se la tav. 20 riporta alla 3, a maggior ragione la 21. La figura è strutturalmente la stessa: il soggetto è il flagellato; ma ha indosso il ‘mantello di porpora’ (Gv 19, 2). Annota l’artista: «Christ flagellé (avec manteau)». E questo non più per irrisione: l’aspetto è del Risorto. Si pensi al ‘fare brutto’, di Rouault, a esprimere miseria: qui siamo agli antipodi: esprime la gloria. Si noti che anche la didascalia (dolorosa) collega il risorto al flagellato, ma concettualmente manca il ‘toujours’ (che verrà ribadito nella tavola 35). 

Per un importante aspetto infatti il risorto non è più flagellato. Il ritorno al flagellato è anche, per Rouault, un modo per identificare il risorto: cambiato, ma è quello stesso al quale fu messa addosso la tuni­ca scarlatta, dopo la flagellazione. Si noti anche lo sguardo: rivolto a terra nei due casi. A ben guardare, il flagellato guarda a terra (al destino di morte) mentre il risorto guarda a noi (sulla terra); e la mano è del seminatore, ma è una carezza.

Tavole 22-25

Le tav. 22-25 possono significare la vita (vita?) che sconta il peccato e la condanna in attesa della morte; o invece la vita in Cristo: che accoglie la croce e la risurrezione di Cristo (tav. 20-21). Dunque ora Gesù è nel cuore dell’uomo: notiamo che la figura disegnata nella tav. 22 corrisponde, nell’atteggiamento, a quella dell’adulto della tav. 4. Inoltre, ambedue sono precedute da una figura di Gesù: è Gesù che cammina con noi, si carica dei nostri peccati e vive, soffre e muore con noi, e ci conduce verso la ‘terra promessa’. Questo tuttavia non può avvenire senza la nostra cooperazione: Cristo è nostra speranza se crediamo in lui, se speriamo in lui, se ci lasciamo guidare da lui, a cambiare il nostro cuore in un cuore simile al suo, capace di amare. Troviamo infatti nella Bibbia che una condanna è stata inflitta al peccatore: «partorirai con dolore» (è stato detto alla donna) «e con fatica ti procurerai il pane» (è detto all’uomo) finché tutti e due morrete. 

Infernale è la vita dell’uomo subita come una condanna, dimenticando Cristo, cioè vivendo come se lui non fosse morto e risorto per noi (tav. 20 e 21). È anzi un inferno per l’intera creazione: una terra ostile è nel ‘paesaggio’ della 22, nel ‘paese’ della 23, nella lebbra della terra della 24. Alla condizione della terra si aggiunge il fumo dell’officina (tav. 25) in faccia all’operaio. È in questo inferno che Cristo si è calato per salvarci. Crediamo infatti che Cristo «discese agli inferi».

La tav. 22 ha un duplice significato: il primo e più evidente è terrifico (legato al castigo inflitto da Gen 3,16-19) mentre il secondo collega la fatica del paysan seminatore al gesto, dolcissimo, del Risorto. A questo punto si può comprendere come il Miserere intrecci – senza confusione – storia dell’uomo e storia sacra (Cristo nei secoli) giocando con immagini e didascalie. In certo senso le tav. 20-21 sono una parentesi (Cristo – sulla croce e risorto – messo tra parentesi...: dimenticato) in una storia di peccato, di condanna e di ‘pena’, da scontare (tav. 22 sgg.) fino alla morte. Se Cristo invece (e in ogni senso) non viene ‘dimenticato’, pur restando la ‘pena’, ne cambia radicalmente il significato; tanto che il cristiano anche se morto vivrà (tav. 28). 

Nella struttura del discorso è la storia dell’uomo che entra in quella di Cristo: in principio è Gesù di Nazareth (tav. 1-3) condotto alla croce (tav. 20). Egli è venuto nella nostra storia (tav. 4-19). Egli è la nostra speranza se, come lui ‘in terra d’esilio’, viviamo la nostra croce non come una condanna (tav. 22-25) ma per gli altri. Per chi non ha questa concreta speranza è invece una condanna, senza alcun senso: è solo fatica e disperazione (tav. 26-27). La tavola 22 è fortemente espressionistica: può ricordare L’urlo di E. Munch È interessante il procedimento simbolico con cui Rouault esprime la ‘pena’ inflitta, rispettivamente, all’uomo e alla donna. Il primo lavorerà col sudore della sua fronte una terra ingrata. Il paesaggio (terra e casa) qui stanno a rappresentare la madre, che partorirà ‘con dolore’. La fatica (la croce) è marcata sulla schiena, ben visibile dell’uomo. Questa tavola ha un importante riscontro in un lavoro illustrato da Rouault per Suarès (Passion); in particolare nell’ultima immagine.

Come nella Petite Banlieue (tav. 10) anche nella 23 dal paesaggio agreste si approda a quello urbano. Anche la 23 è ‘piccola periferia’ dei ricordi d’infanzia, ma la prospettiva è ulteriore e più grave. È ulteriore perché si passa dall’urbano all’industriale delle periferie. Ed è più grave perché l’albero gigantesco, dalle braccia che arrivano al cielo, della tav.10, è sostituito da alberi mozzi e spogli, nel fumo di camini e ciminiere.

La prospettiva è qui secolarizzata, nel senso più negativo e mortale. Alla tav. 10 si arriva dalla serenità lacustre della 9, orizzontale, per alzare al cielo; alla tav. 23 si arriva dal tormento verticale della 22, per appiattire (stendere) l’immagine sulla ‘strada della morte’. Che la tav. 23 sia apocalittica è intuitivo: essa è una anticipazione paesaggistica degli scheletri della seconda parte del Miserere. Un’ apparente levata in alto è nell’enfasi prospettica della strada, che divide la parte destra (il povero villaggio) dalla sinistra (il muro industriale, con una apertura per introduzione materiali). La strada conduce a una foresta di camini e alberi secchi – uno in particolare – e (in luogo del cielo) al fumo. Il villaggio conserva una sua strada (marciapiede) che consente l’ingresso alle abitazioni. Un ingresso ha ripidi scalini, su una facciata con una strana finestra. L’unica strada è però, in prospettiva, quella delle ciminiere. 

Annota l’artista: «Petite banlieu (sans lune)». Occorre collegare nei significati, sia in negativo che in positivo, questa via dei Solitari al ‘Solitario’ della tav. 5: il ‘deserto’ non è soltanto luogo di morte. E non è solo deserto: si può notare, sulla sinistra, un gruppetto di figure. È caratteristico del ‘vecchio sobborgo’ (si veda la tav. 10) dove generalmente non manca la figura di Gesù.

La didascalia della tav. 24 allude all’inverno, alla lebbra e alla terra, sotto una figura misteriosa e tutta da decifrare. L’inverno è la stagione della morte del seme sotto terra; solitudine potrebbe essere quella del lebbroso, o anche del moribondo; tutto ciò situa, in prima approssimazione, la tavola nel contesto di un discorso (tav. 22-28) che riguarda la strada e la pena del vivere e del morire. Ma occorre andare a un contesto più ampio. 

Il riferimento princi­pale è forse nella tav. 4, che rappresenta due viandanti nei quali è l’ ‘esodo’ degli ebrei dall’Egitto. Importanti differenze della 24: è una sola figura, presumibilmente femminile, contromano, parzialmente nuda e munita di un casco (o di un elmo) e di una veste antica (drappeg­gio). Figura ‘viandante’? Il ‘passo’ è in sostanza quello dell’adulto della tav.4, nella quale il bambino è fermo. Qualcosa di fermo (bloccato) è però anche nella 24: il passo è troppo ampio per essere semplicemente tale. Potrebbe essere passo ‘atletico’; o la figura potrebbe essere seduta a gambe divaricate. Forse si può parlare di una sintesi dei due personaggi della tavola 4. Considerando il contesto pitto­rico e grafico di Rouault, si possono più facil­mente riconoscere altre origini della mostruosa, metamorfica creatura. Anzitutto vi è il ‘fare brutto’ (un modo di fare arte) del ‘periodo delle prostitute’. Anzi, la ‘creatura’ può essere una prostituta. Si veda la posizione del nudo seduto. Prostituta – donna dello sfascio della carne e dello spirito: miserabile peripatetica «vescica» (nel testo di Coquiot, 1924) – ma anche donna «cui molto è perdonato». Alle origini dell’immagine sono anche gli atleti del mondo del circo; e vedi la grafica di Rouault per Cirque, di Suarès (1931); e per Cirque de l’ Étoile filante; ma non sono i bellissimi delle tav. 5-6: la deformazione è quella (espressionistica) dei ‘lottatori’ del 1913. Altre figure di riferimento sono la madre (la «vieille mère» della poesia Mères, 1914) e l’artista stesso, che si sente ‘pellegrino’ della irraggiungibile perfetta bellezza. Infine è la pregnante, cristologica figura dell’ Ebreo errante 1934 (guazzo).

Ancora una immagine verticale frontale – un ‘ritratto’ a mezzo busto – dopo quelli delle tav. 8 e 17: ancora un ‘clown’? È un ritratto di ‘proletario’, di operaio. Se c’è una maschera, è la fuliggine (corrispondente al fumo della tav. 23) dell’officina; e un gesto impacciato, un viso umiliato… Il contesto nel Miserere è, da una parte, quello del lavoro – dell’officina (tav. 25) come dei campi (tav. 22) – ingrato, per un castigo originale; e dall’altra un paesaggio tropicale (tav. 26). La didascalia accenna al cantar Mattutino dei monaci. 

Dalla figlia Isabelle sappiamo qualcosa di un tal Dominique, conosciuto da Rouault quale operaio (custode) all’ ‘École des Beaux-Arts’, con un passato di marinaio (donde il ‘béret marin’) e l’affascinante abitudine di raccontare viaggi (anche nei paesi tropicali). L’artista annota: «Marin (Jean Marie)». Si era nella Parigi dove arrivavano, con la macchina a vapore, maschere e sculture africane, come disegni giapponesi e ogni sorta di oggetti esotici, destinati a influenzare profondamente l’arte contemporanea. Era anche la Parigi dei Nabis e dei viaggi di Gauguin. 

Rouault non poteva non subire anche lui il fascino delle scoperte e del ‘primitivo’, ma la sua ricerca era più profonda; e influenzata dalla lettura di Pascal, dall’amicizia con personaggi come Huysmans e Bloy e dalla frequentazione di monasteri come Ligugé (aperti ad artisti). ‘Grande operaio’, per Rouault, è anche Cézanne (G. R., 1910). Dominique simpatico ‘terragno’ (terra-terra, sia pure di mare) non aveva prospettive accademiche, né doveva avere familiarità con monasteri. Rouault lamenta esplicitamente in didascalia questa distanza tra Chiesa e popolo. Jean-François è un messaggio a tutti i ‘laici’: la Chiesa propone anche a noi le Lodi del mattino (la Bellezza del mattino e dei Salmi) ‘quando il mondo è ancora in ordine’.

Tavole 26-27

Se si dimentica Cristo (se si escludono le tav. 20 e 21) al processo segue la condanna, che in definitiva è condanna a morte. Per esprimere questo, Rouault ricorre alla storia di Orfeo e Euridice, che troviamo in Virgilio, autore della didascalia della tav. 27. I due si amano, tanto che, quando muore Euridice, Orfeo si cala nell’Ade (mondo dei morti) per tentare di riportarla in vita. Il tentativo dapprima riesce, ma Orfeo, nell’uscire dall’Ade (tav. 26) si volta indietro (non sentendo i passi di Euridice, che è un’ombra) e con questo (tav. 27) la perde per sempre. 

Ecco i ‘tropiques’, dei ‘paysages’ raccontati da Dominique; ma l’immagine è tutt’altro dall’affascinante rievocazione di viaggi40: Rouault l’adopera a significare la fine di ogni speranza e il luogo pagano dei morti: è l’Ade. La tav. 26 è orizzontale come la 23; e va vista nel contesto drammatico 22-27, strettamente collegata con la 27. 

La grafica di Rouault ha il soggetto trattato in modo analogo nelle Réincarnations du Père Ubu, in particolare per il tema dell’albero (Frontespice, Incantation, Paysage tropical) che allude a quello ‘del bene e del male’ e del peccato originale (origine della morte). Il tema del battello si ritrova in Paysages légendaires (1929, Sur la rivière) ma con significato opposto: sulla barca si trova Gesù. Qui, delle due figure, una è seduta rigidamente, in una immobilità mortale; mentre l’altra – il traghettatore – compie l’inutile gesto di reggere due alberi (dei quali uno spezzato) senza alcuna vela. 

L’immobilità è propria di tutto il primo piano, al centro del quale è lo strano approdo oviforme, sormontato da una forma analoga più piccola e ancora da una ‘mezzaluna’ che funge da camino, dato che esce del fumo (vedi su questo le tav. 23 e 25); con apertura (come per una enorme chiave) al mondo sotterraneo; al quale allude il riflesso del magico, pauroso ‘tempietto’, nell’acqua stagnante (certo non potabile)41 L’albero è sul fondo, tutt’altro che immobile: paurosamente si agita in quel fumo, che è l’unico cielo dell’immagine.

Figura ‘contro’, come gli ‘atleti’ delle tav. 5-6 alle quali va rapportata, questa di ‘Orphée’: contromano (chiude la sequenza 22-27) e ‘contro’ nel senso del grido di dolore – Miserere! – elevato al cielo, nella disillusa costatazione della condizione umana. Figura del cantore ‘orbus’: orbato della sposa; e anche ‘orbo’ – fisicamente cieco, ma (come Omero, o Tiresia) interiormente illuminato e perciò stesso infelice –. Orfeo, del mito cantato da Ovidio e Virgilio, vaga solitario per tutta la terra con la sua lira e piange la ninfa trasformata in divinità infernale, simbolo della natura che rinasce per la morte. Il ‘vagare’ raccorda questa con la strana figura della tav. 24, mentre il tema della ‘solitudine’ è quello della 5, qui nel senso più negativo: la figura sconvolta (qui prostrata in ginocchio), il collo possente e il volto schiacciato contro il cielo rinviano alla tav. 6. L’antica (anche per il drappeggio) figura di Orfeo appare schernita dalla sostituzione, sul corpo nudo, della lira (antico strumento musicale) con una rozza macchina fotografica dall’ enorme ‘occhio’ – strumento di moderna documentazione del reale descritto nelle tavole precedenti, contro le quali guarda (ma non guarda) la figura. Canta Virgilio: Sunt lacrymae rerum. Perché Virgilio? È il cantore della gloria, al limite della disfatta, dell’impero pagano.

Segue (nella tav. 28) una diversa immagine della morte. È ancora terribile, ma a ben guardare una timida luce vibra intorno alla croce. Luce che si fa viva se leggiamo: Chi crede in me, anche se morto vivrà. Sono parole di Gesù. 

La tav. 27 chiude con la ‘figura contro’ la sequenza delle pene (22-27); dove la pena maggiore (la morte) è significata ‘prima’ della chiusura (nella 26) e ‘dopo’ la chiusura (nella 28) con significato ben diverso. Ne viene che la disperazione (se questo è il principale significato della 27) è ‘morte oltre la morte’ (e vedi la tav. 54). C’è poi una morte (tav. 28) che non conosce disperazione, perché è un inizio, e non solo una fine. Con la 28 si torna all’inizio del Miserere (tav. 1): sotto terra, là dove Cristo si è calato – ‘discese agli inferi’ – per uscirne con tutti noi: Chi crede in me, anche se morto vivrà. L’ambiente della 28 è cimiteriale e catacombale. L’artista annota: «Catacombes». In quanto cimiteriale è segno di morte; ed è teatro del giudizio: i morti sono divisi e c’è uno che giudica (dalla croce). In quanto catacombale, è l’inizio della Chiesa; e in essa del Regno di Cristo.

Tavole 29-31

Le parole di Gesù spiegano l’esplosione di vita che riempie la tav. 29. Di nuovo feconda è la terra, che sembra abbracciare il cielo, mentre sorge un grande sole ‘eucaristico’. Il cielo scomparso (cancellato) della tav. 2 è ora risorto. 

Le tav. 29-31 sono ‘sacramentali’: in esse è significato l’avvento di ‘terre e cieli nuovi’: fatti nuovi dall’amore col quale Cristo ci ha amati, dando la sua vita per noi. Occorre considerare insieme la tav. 30 per comprendere la 29: la terra è nuovamente feconda e da essa sgorgano nuovi elementi: il sole (tav.29) è anche un ‘pane di vita’ - l’Ostia - e l’acqua versata sul capo di Gesù (nella 30) allude al nostro battesimo. Sono i ‘segni efficaci’ della grazia, che Cristo ci ha donato per salvarci. 

Le tavole conclusive del primo capitolo riassumono quale sia la nostra speranza, al di là di ogni illusione: non c’è altra salvezza (tav.31) se non nella croce di Cristo; il che significa fare come lui ci ha detto e secondo l’esempio che ci ha dato: «Amatevi gli uni gli altri». Ma siamo in grado di amarci? Noi crediamo che Cristo risorto, che è Dio, ci aiuterà ad amarci come lui ci ha amato.

Se la tavola 21 significa, dopo la passione e morte (tav. 1-3, 20) la risurrezione di Gesù, la 29 rappresenta, dopo la nostra pena e la morte (tav. 22-25,28) un’altra risurrezione: nostra e di ‘tutto ciò che è nostro’. ‘Nuovi cieli e nuova terra’. La tav. 29, strutturalmente, può intendersi come l’esplosione della 28. Il grande sole ‘fauve’, che agisce e domina una colossale metamorfosi, si è levato a dissipare le tenebre. 

Pare evidente il riferimento al primo capitolo del Genesi, quando «lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gen 1, 1): è una ‘nuova creazione’. L’allusione all’alba è nella didascalia: Cantate Mattutino...; con un buon pensiero anche per Jean-François (tav. 25). Occorre peraltro notare che raramente nel Miserere il significato è univoco.47 Dicevamo di tavole come la 13, costruite con elementi (linee sinuose, decorative..) altrove adoperate con significati opposti.48 Direi peraltro che l’estrema sinuosità (sensualità) del paesaggio qui deve essere interpretata come ‘vita’, nel senso più pieno. 

Il probabile rinvio ai segni indecifrabili, primordiali e sulfurei, della parte abissale della tav. 20, non fa che arricchire l’interpretazione della 29: le tav. 20 e 28 – ‘tavole della morte’ – sono ambedue seguite dal ‘credo’ nella risurrezione. La tav. 29 va posta poi a superamento della 2, dove il cielo è ‘cancellato’.

Se la tav. 29 potrebbe essere scambiata per un paesaggio, la 30 si incarica di smentire: la 29 e la 30 sono ambedue ‘sacramentali’; e quel sole è ‘eucaristico’. Due sacramenti – eucaristia e battesimo – sono assunti a significare l’insieme dei ‘segni efficaci’ della trasformazione (redenzione) nostra e del mondo, operata da Cristo. 

Mentre la 29 suggerisce l’esplosione del caos originario, la 30 fornisce l’immagine opposta: di un ordine ‘liturgico’. Gesù è in luogo del ‘sole’: focalizzato al centro, in alto (la testa, la colomba e tra queste la mano del Battista) con presentazione intera, frontale, in luce. La parte inferiore del corpo, immersa nel paesaggio, è esilissima: Gesù ‘galleggia’, tra cielo e terra. Il paesaggio è essenziale e l’orizzonte è una linea curva aperta, come a tavola 9. Il cielo è sereno e immobile, tutto è scandito nella pace e nel silenzio. La scena è solenne, ‘geometrica’: di una ieratica e sacrale bellezza. Geometria, peraltro, dell’arte - anche espressionista - e del ‘rito’ liturgico, che in quanto tale è ritmico, e non ripetitivo. 

Si veda come Rouault rapporti, nello schema del duo faccia-profilo, le due figure di Cristo e del Battista: lo schema c’è, ma la figurazione gioca sul quasi-scorcio del Battista (solo il Cristo è frontale) per modulare la forma. Non ci sono altre figure umane oltre al Battista, che è ‘sull’attenti’, come un soldato. Il ‘noi’ è sottolineato a didascalia: Noi, è nella sua morte che noi... Le due figure immerse nel paesaggio e ‘velate’ (o ‘spirituali’) sulla sini­stra, sono angeli musicanti. È velato (o simbolicamente cancellato) il sesso del Battista, mentre è fortemente illuminato il perizoma di Gesù - a indicarne la fecondità.

Nella tav. 31 la figura di Gesù resta centrale; e la luce che investiva il suo corpo nella 30 illumina ora più corpi: il suo e il nostro, sotto la croce: noi con lui. La 31 è la terza tavola ‘sacramentale’, dato che la croce è il ‘sacramento dell’amore’. 

È interessante il raffronto con la tav. 20. Il contesto qui cambia radicalmente e il crocifisso ‘regna’. I due bracci della croce hanno larghezza uguale. Il punto più illuminato della tavola è la scritta «INRI», che nella 20 manca. La luce illumina il corpo di Gesù, specie nella parte superiore: il perizoma non ha l’importanza assegnatagli nella 30. Il corpo è disegnato dalla luce a tutto tondo, non appiattito e piagato come nelle tavole 3 e 20. Le braccia si allargano e il corpo si allunga espressionisticamente: l’apertura comprende il cielo e la terra. 

Spesso il crocifisso in Rouault è mutilato: non mostra mani e piedi, ottenendo un’enfasi percettiva (del non-mostrato) e un effetto ‘zoom’ sul resto della figura. Si veda principalmente la Crocifissione del 1918 (olio 104x73.5) dove la ‘mutilazione’ è evidente. Qui nella tavola 31 recupera i piedi e mostra che il corpo non si prolunga sotto terra. Rispetto alla tav. 20, scompaiono i segni degli ‘inferi’, sotto l’orizzonte. Il paesaggio è ridente. Sotto la croce di Gesù, non c’è la consueta ‘madre dolente’: i personaggi sono creature nude e bellissime, in atteggiamento contemplativo o affettivo; costruite ampiamente con segni del tipo notato per la tav. 13 (soprattutto la figura di sinistra). Questo innova rispetto al carattere sacrale (disciplinare) della tav. 30. 

Si noti l’atteggiamento della testa del crocifisso e degli astanti: contempera verticali e orizzontali, anche diagonali. L’orizzontale enfatica della testa di Cristo potrebbe alludere al sonno di Adamo. I nudi femminili hanno sul capo fasce, o veli; e i volti sono sensibilmente maschere.

Tavole 32-33

Cristo risorto ci aiuterà ad amarci; ma crediamo noi in Cristo risorto? Certo, noi vorremmo ‘toccar con mano’, come Tommaso (tav.32) per essere sicuri che è risorto; ma la fede è un dono, per cui si crede senza ‘toccar con mano’ e senza vedere, se non come attraverso un velo... (tav.33). Il velo della Veronica diventa qui il segno, o la maschera, del volto di Cristo, che crediamo presente in noi e nei fratelli che incontriamo, soprattutto se sofferenti, sulla nostra strada. Come si vede, Rouault collega al tema antropologico della maschera (tav.8) quello teologico, riferito all’uomo che crede per rivelazione e nonostante l’oscurità della fede. 

Le tavole precedenti esprimono il contenuto della nostra fede cristiana: noi crediamo nell’avvento di una ‘terra promessa’, che non è semplicemente nel futuro, ma invisibilmente presente qui e adesso: Regno di Dio, operato da Cristo, in noi e intorno a noi. Un giorno questa realtà presente sarà svelata: ora è ‘visibile agli occhi della fede’. La tavola 32 esprime il desiderio, che è di tutti noi e non solo di Tommaso, di vedere e toccare qui e subito. 

La coppia di tav. 31-32 corrisponde alla 20-21 nel soggetto: croce e risurrezione di Gesù, ma qui (tav. 31-32) sotto la croce e accanto al Risorto ci siamo anche noi, con la nostra poca fede e i nostri infiniti desideri. La figura di Tommaso è ‘carnale’, la sua mano nervosa. Gli occhi non guardano in faccia, ma sono dominati dal dubbio, dalla diffidenza e dalla vergogna. Gesù è come convalescente52: sottile (si guardi l’incredibile mano, che esprime delicatezza) e ‘spirituale’. Acconsente alla richiesta dell’umiliato Tommaso, anche se si schermisce.

Nella tavola 32 ‘Gesù si schermisce’: c’è, tra le due figure (Gesù e Tommaso) un invisibile schermo, che impedisce a Tommaso (e a noi) di portare a compimento l’operazione di ‘toccar con mano’. Nella 33, lo schermo si materializza nel leggendario e simbolico ‘velo’ della Veronica. È un velo (un segno) che, come tale, nasconde e rivela; e ciò che rivela è il ‘Sacro Volto’ di Cristo.53 L’immagine (‘suaire’) è enigmatica, anche per la struttura del ‘velo”, in relazione al supporto: struttura ‘aperta’, indecifrabile, ma che allude alla spirale. 

La leggenda riguarda la Passione: la testa è incoronata di spine e il sangue scende sulla fronte. Tuttavia il volto, disegnato plasticamente con chiaroscuri e interventi di colore, non esprime solo sofferenza: c’è una giovanile vitalità54. Ciò è coerente con il messaggio di risurrezione con il quale si conclude la prima parte del Miserere.

Siamo al secondo capitolo. Le prime tavole – frontespizi – dei due capitoli si assomigliano. Qui, nella parte alta c’è, invece che un angelo, il velo della Veronica, col quale abbiamo visto chiudersi il primo capitolo; e nella parte bassa (sempre in un cunicolo sotto terra) invece che la testa di Gesù sofferente, quella di un soldato (con l’elmetto) ridotta quasi a un teschio. Recita la didascalia: Anche le rovine sono crollate. Sulla tavola è scritto: Guerre (Guerra). L’artista si riferisce alla prima guerra mondiale. Abbiamo detto che per lui quel velo significa credere in Cristo, che non possiamo vedere e toccare direttamente. Questa fede è messa alla prova, soprattutto in momenti difficili come la guerra (la morte): quando tutto sembra crollare. 

Le tavole dalla 34 alla 37 costituiscono un’ introduzione, che corrisponde alle due, teologica (1-4) e antropologica (5-8), della prima parte. Dei due ‘frontespizi’ del Miserere, fondamentale è il primo (tirato nel 1923) mentre il secondo (1926) è funzionale alla decisione di farne due parti: ha infatti la funzione di collegare la prima (‘velo’ conclusivo) alla seconda parte (Guerre). Il ‘velo’ (tav. 34) sta in luogo dell’ ‘angelo della pace’ (tav.1) e il ‘soldato’ in luogo di Gesù (della 1): ambedue vanno a morire. Più complessa, rispetto alla tav. 1, è la cornice della 34; più semplice, rispetto alla 33, è la cornice del ‘velo’ della 34. Diversamente dalla 33, la testa di Cristo (nel ‘cielo’ della 34) risplende; ed è chiaramente di Gesù sofferente. La sua presenza nel frontespizio è l’annuncio che diventerà protagonista di tutta la seconda parte. La testa, nel ‘sottosuolo’ della 1, è di Gesù, vivo e avviato al Calvario. Il teschio, trasferito dalla tavola 28 alla 34, non ne pare soddisfatto; e digrigna i denti. È (evidentemente) figura ‘contro’, anche perché contromano. Ed è doppiamente sepolto: sotto terra e sotto l’elmo. È ritto, come fosse vivo, ma è morto e rinsecchito. Si veda la Testa di clown del 194855 che certo rielabora questa immagine: il soldato della 34 è un clown – il teschio, per Rouault, è ‘il clown dei clown’ – o è ‘la morte’ camuffata da soldato. È l’annuncio della ‘danza degli scheletri’: importante tema di Guerre. La didascalia è tratta dal Lucano della battaglia di Farsalo, non a caso (lo stesso significato avrebbe avuto una didascalia biblica): per il significato che quella battaglia riveste nell’ incrocio storico dell’impero romano e del cristianesimo

Tavole 35-37

Ricordiamoci di Gesù sempre flagellato (tav. 3): ‘sempre’ perché vive e soffre e muore in tutti i tempi nel cuore degli uomini. 

Anche qui, nella tav. 35, è espresso lo stesso concetto. Leggiamo: Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo. Le tavole che seguono danno ragione di questa agonia di Gesù, in un mondo in cui sembrano trionfare l’odio e la guerra. Da che mondo è mondo, si dice: ne finisce una e ne comincia un’altra. 

Perciò, nella 36, padre e figlio sono tutti e due vestiti da soldato, mentre il giovane parte per la guerra; e la morte è già alle sue spalle. Ma perché sempre guerre? Perché gli uomini, invece di amarsi come Gesù ha insegnato (tav. 31) si odiano a morte: sotto lo scheletro che balla c’è scritto: L’uomo è lupo all’uomo (tav. 37). 

Il riferimento fondamentale, per la tav. 35, è la 3: immagine («Christ à la colonne» annota l’artista: è il flagellato) e didascalia (il testo pascaliano: jusqu’ à la fin du mond... corrisponde al toujours). Le tav. 34 e 35 riportano nella seconda parte – apparentemente diversa nel tema generale: ‘Guer­re’ – la tematica cristologica inaugurata nella prima (tav. 1-4): Gesù è coronato di spine e flagellato e muore (tav. 2, 3, 20, 35) nel cuore di chi muore (tav. 4, 34). Si noti che la tav. 35 sintetizza, nel significato, la 2 e la 3 (Cristo alla colonna è coronato di spine). L’immagine è quella del Christ aux outrages, dove ‘honnir’ e ‘outrager’ si corrispondono. Ancora nel significato, la tav. 35 corrisponde alla 20; e vedi la larga ‘colonna’ che allude alla croce. Il taglio è essenziale (effetto ‘zoom’) e l’espressione della sofferenza indicibile. La deformazione espressionistica esalta la potenza e insieme ‘rompe’ il corpo del flagellato – che è quello del ‘Sansone’ della tav. 6, sottoposto qui a una estenuante prova fisica –: corpo nudo contratto e scosso, sotto i colpi vibrati dai flagellatori; ma si potrebbe dire ‘squartato’ (nel senso del Bue di Rembrandt) dalle grandi ombre. Il capo è reclino come quello della tav. 31 (sonno di Adamo) ma qui non c’è distensione, che non sia intima consegna al Padre di un dolore supremo.

La misteriosa tav. 36 è un interno (vedi anche tav. 46, 47) a due spazi, nei quali Rouault disloca scene o personaggi distinti e complementari. A sinistra, in prima lettura, una ‘confessione’ e la promessa del figlio (che parte per la guerra) al padre, pure lui vestito da soldato: Sarà l’ ultima. A destra s’ intrufola (dalla tavola che segue, tra i piedi dell’inginocchiato (alle sue spalle) la morte. Lo scheletro dalle lunghissime braccia, dimensionalmente dominante, è lì a turbare quell’intimità, pronto a ghermire: quel ragazzo è cosa sua, lo vuole per sè. 

L’intimità, del tipo che Rouault chiama ‘intimità cristiane’ è tra i due visi illuminati. Quello del figlio ha lo sguardo rivolto all’icona della Vergine, nel cielo dell’immagine, opposta all’icona della morte. Il padre ha la mano sul cuore; il figlio ha l’anello al dito, su una strana mano. Strana è anche la didascalia, per quel petit père; e strano il copricapo del padre (è una ‘bustina’ militare come quella del figlio?). Quel petit père potrebbe essere semplicemente un confidenziale ‘paparino’, o ‘vecchio mio’; ma quel ‘padre’ potrebbe anche essere un religioso sicché la ‘confessione’ sarebbe il ‘sacramento’ (del perdono); o potrebbe anche essere un russo – il suo copricapo potrebbe essere un colbacco –: un ‘pope’ ortodosso; o anche uno ‘zar’. Lo zar, infatti, si faceva chiamare ‘piccolo padre’. La tavola potrebbe così alludere a Nicola II: l’ultimo zar, massacrato nel 1918 con tutta la sua famiglia dopo la ‘rivoluzione di ottobre’. La morte, che appare alle spalle del ‘figlio’ (dello zar, o della rivoluzione?) certo minaccia anche il padre. Si veda lo schema del Cristo dileggiato 1930 (pastello) costruito in analogo ambiente, con Gesù seduto in luogo del ‘piccolo padre’, avendo il derisore alle spalle.

La tav. 37 conclude l’introduzione (34-37) della seconda parte del Miserere, fornendo il perché plautiano (nel contesto del Sal 50, 7: «Nel peccato mi ha concepito mia madre») della catena non interrotta di guerre. L’immagine è (per stare con l’umbro Plauto – Hobbes prende da lui) un “Miles Gloriosus”, da non augurare a nessuno. E con lui nessuno, salvo le sue vittime, sotto un orizzonte e un cielo di tormenti: esattamente il contrario dell’orizzonte e cielo di pace della tav. 30. Il contrario anche del ‘Risorto’ della tavola 21. Lungo è il passo dello scheletro, a scavalcare scheletri; fosse femmina, sarebbe dama dei quartieri alti (tav. 16): ne avrebbe il piglio; ma l’artista annota: «Squelette (avec Képi) creuse la fosse». Testa alta e ciechi gli occhi, follia. La mano non accarezza, ma annaspa: procede a tastoni, nelle tenebre rotte da una livida, ‘tragica’ luce. 

La ‘danza macabra’, o ‘danza degli scheletri’, annunciata nella tavola 34 e aperta dalla 36, viene su dal medioevo; ma qui non è un macabro rito per esorcizzare la morte: è, al contra­rio, un richiamo alla morte e, nella fede, alle ‘realtà ultime’ della vita.

Tavole 38-40

Alla ‘danza della morte’ (tav. 37) segue un discorso sulla morte in guerra (tav. 38-47) metafora di un discorso generale sulla morte, a partire dalla presentazione del ‘principe delle tenebre’ (tav. 38) e delle sue opere. Nel primo capitolo abbiamo visto che Gesù è come un seme, deposto nel cuore dell’uomo: vive in noi, cresce in noi, soffre e muore in noi; e ci rende capaci di amare e di dare la vita per gli altri. Ma non c’è solo Gesù nel cuore dell’uomo, dato che gli uomini si odiano e si uccidono. 

Rouault scrive: Un cinese inventò, si dice, la polvere da sparo, e ce ne fece dono. Anche questo cinese (tav. 38) non è molto raccomandabile, ma c’è chi impazzisce (tav. 39) per la sua polverina. Pensiamo soprattutto ai trafficanti di droga e di armi: fanno affari d’oro. Sicché un ragazzo non fa in tempo a crescere che è già nelle loro mani: eccolo infatti (tav. 40) alla visita militare. Ricordiamo l’adolescente nel naufragio della tav. 11: quel naufragio è stato pensato da Rouault mentre incombeva il disastro della prima guerra mondiale. 

Al profilo della ‘morte’ della tav. 37 segue la presentazione frontale del ‘cinese’ della 38: un ‘duo’ magnifico. È un punto critico, questo del Miserere; dove lo scheletro maledetto, che ha indossato una maschera di pelle gialla mortuaria, si volge verso di noi e ci fissa, dal nero vuoto, meditando il male. Il satanico personaggio è pura maschera, come il ‘falso profilo’ di Ubu della tav. 7: è Satana – Rouault l’ha studiato a lungo –. Ha certamente una sua setta. È inquadrato nella sua nicchia e in un ‘tempietto’: un antro non dissimile da quello sotterraneo della tav. 28, ma dal clima completamente diverso; e con il ‘cinese’ in luogo della Croce. L’ambiente è alchemico, sulfureo. L’arco a ‘serpentino’ sovra­sta un cappello a larghe tese, sul quale è disegnata una nera porta. Creatura dalla fronte illuminata da sinistri pensieri, il cuore (indagato come con l’occhio di un microscopio e disegnato ad arabesco) è un nido di vipere. Appare immobile (mentre con la mano regge dritta la testa) ma è ‘attivo’. Sul muro ha l’icona del ‘lavoratore’ – che Rouault prende dalle illustrazioni per Circo e Passion di Suarès – e sotto l’icona, con ‘fiori decorativi’, ha un vaso-ampolla, che è un salvadanaro. 

Ora possiamo afferrare il senso dato da Rouault alla ‘guerra’ di cui parla. La tav. 38 ha il suo significato profondo accanto alla 4 (se réfugie en ton coeur...); e la guerra esterna è maschera di quella che si svolge nel cuore dell’uomo. In esso infatti non soltanto abita Cristo, ma ci seduce e muove guerra l’astuto serpente – diciamo: il Male, oppure: il ‘principe delle tenebre’ –, cui dobbiamo la guerra. Possiamo solo decidere, non solo in teoria, da che parte stare

Per una strana metamorfosi, dal nido di vipere della tavola 38 sono uscite due creature camuffate da umani; ma restano vipere. È una storia questa (ci hanno raccontato che un cinese...) che si svolge anzitutto nella vita civile: i due ‘civili’ sono soci in affari, sporchi e sulla testa di tutti. Un ‘duo’, certamente (per un verso si identificano) ma sono diversi. Visti in faccia, inamidati: con lo sparato (scudo-crociato) e lo sguardo ebete e allucinato. Borghesi assassini ‘figli di puttana’: il gatto e la volpe. Droga o polvere da sparo? Diciamo tutte e due. Quello grassottello di sinistra (il gatto?) viene con uno ‘zoom’ da un ‘grottesco’ del 1917 e potrebbe star bene – anche se non sta – tra i tipi delle Réincarnations du Père Ubu. Pelato lui, il socio (quel dito: mano lesta) è ben fornito di capelli, su fronte bassa e occhi spiritati.

Ed eccoci, sempre nella vita ‘civile’, alle prese coi militari: faccia a faccia con uno, forse dei meno pericolosi – un ‘dottore’ – di loro: è la visita militare. Rouault rifletterà su questa tavola in un olio del 1937: Cristo e un dottore. Rifletterà su ciò che vi è di più caratteristico qui: l’assenza di rapporto, nei due faccia a faccia, molto diversi tra loro.

Il medico militare è costruito come un’ unica massa, rigida e compatta, che comprende anche la testa; massa vestita, anzi blindata, disegnata in tutto tondo e che pertanto riempie tridimensionalmente e completamente lo spazio; nel quale d’altra parte deve starci anche (schiacciato a muro) il corpo nudo della recluta, che ‘passa la visita’. Il militare («Major», annota l’artista) è sormontato da un’ombra, che comprende i capelli e scende sul grugno, che è una maschera appiccicata (stuccata) sul volume della testa. Un’ombra è anche davanti al volto, affilato e bellissimo, dell’umiliato, palpato per valutarne l’efficienza per l’esercito. L’ombra in questo caso è protettiva, mentre l’altra sottolinea la concentrazione del medico (a occhi chiusi) su una operazione che è burocratica e professionale. A ciascuno la sua ombra; ma la recluta è ‘figura contro’, mentre il burocrate – alle sue spalle, frontali presiedono il ‘cinese’ e le sue creature – marcia nella direzione di una inesorabile macchina (in questo caso, ‘militare’; ma ricordiamo le tav. 7 e 19) di fatto soprattutto capace di schiacciare.

Tavole 41-42

La guerra non si fa solo al fronte e non la fanno solo gli uomini, ma coinvolge anche il paese, le donne e i bambini. Rouault tratta prima questo aspetto. Dopo la visita militare c’è chi parte per il fronte; e c’è chi riesce a farsi raccomandare (tav. 41) e resta in paese salvando la pelle; avendo inoltre a disposizione anche le donne di chi è partito per la guerra. È vigliaccheria, per Rouault: peccato grave; ed è – se si ricorda l’individualista della tavola 12 – un altro modo di voltare le spalle alla famiglia, nel momento in cui si tratta di difenderla anche a prezzo della vita. Il tema della donna si sviluppa dalla tavola 41 alla 43. Nella 42 è la madre, che sa di dover crescere un figlio per la guerra (carne da cannone).

La visita militare non è propriamente un tribunale, ma si può venirne fuori ‘abili’ – questo può essere sentito come una condanna, a rischiare la pelle, propria e degli altri – o invece ‘inabili’; e questo può essere sentito come una grazia, oppure come una vergogna. Rouault (la tav. 40 è autobiografica) fu trovato esile: ‘scartato’. Ne fu contento? Si può supporlo, anche perché aveva moglie e tre figli; ma non poté non sentirsi anche umiliato: inabile a servire il suo paese, mentre i compagni partivano per il fronte. 

Altri, con meno scrupoli («Gens de bon ton», annota l’artista) inabili o ‘riformati’ erano stati dichiarati ‘per raccomandazione’. Ecco allora l’ ‘imboscato’ della tav. 41. Ed è in buona compagnia, con le donne di quelli andati a morire: madri e figlie. È una tragicomica scenetta, ma, come abbiamo visto, Rouault nasconde e rivela sempre dell’altro. Quel gigolò si rivolge – fornendo infausti presagi che a lui convengono – alla madre; e cercando (‘mano lesta’ anche lui) la figlia; vestito a strisce (un pigiama?) e in tutto l’atteggiamento simile a un serpente. È il tentatore: quello di Eva (Gen 3, 1-5)... E madre e figlia rappresentano il coinvolgimento, nel peccato, delle successive generazioni. È questa la prima di tre tavole che trattano, nella seconda parte del Miserere, della condizione della donna in guerra; sempre tenendo conto che quella di cui si tratta è, oltre la maschera, la ‘guerra del cuore’.

Con la tav. 42, Rouault affronta il nodo più drammatico del problema del Male, sotteso alla metafora della guerra; ed è quello della morte, e della morte dell’innocente. La tav. 40 ha la recluta, la 41 la figlia insidiata, la 42 il figlio ‘carne da cannone’ («Guerre en horreur aux mères», annota l’artista) e seguiranno altre tavole con le vittime della guerra. Si conosce una tavola del Miserere, non inclusa nelle 58 utilizzate – con didascalia come l’attuale della tavola 44: Mio dolce paese, dove sei tu? – essendo iconograficamente una ‘Fuga in Egitto’. Con buona probabilità sarebbe stata inserita in luogo (o nel contesto) della tav. 42, in relazione al tema della ‘strage degli innocenti’. Del resto la stessa 42 non è lontana da quella iconografia, forse trattata con uno ‘zoom’ sulla Vergine (seduta come in sella) col bambino. Se questa è l’interpretazione, il ‘cinese’ della tav. 38 e le sue ‘creature’ della 39 sarebbero figure di Erode. 

Il pensiero espresso nella scelta oraziana, per le didascalie delle tav. 42 e 43, si può approfondire tenendo conto delle altre tavole riferite ad autori latini – in particolare Virgilio (tav. 27) e Lucano (tav. 34) – che cantano gloria e decadenza dell’impero romano, cui è contemporanea la diffusione del cristianesimo.

Tavole 43-45

La sequenza sulla donna si conclude nella tav. 43 dove la ‘vedova’ ha perso in guerra il marito. Il paese distrutto dal bombardamento (tav. 44) sta tra la ‘vedova’ e lo scheletro (tav. 45) del soldato morto in combattimento: il ‘paese’ è come un campo di battaglia; e come tale segna il passaggio, nel racconto del Miserere, dalla ‘vita civile’ al fronte. 

Nel loro insieme, le tre tavole 43-45 mostrano la distruzione del paese nel contesto della crisi della famiglia; questo soprattutto se si tiene conto della didascalia della 45. Crisi prodotta dalla guerra? Non si può non considerare, data la struttura allegorica del Miserere, una più ampia gamma di significati, almeno a partire dalle tavole 12–13, che inaugurano il tema più generale della famiglia nel modo più drammatico. 

Con la figura della “Vedova” («La veuve», annota l’artista) il Miserere affronta più direttamente il tema della morte. È la ‘vedova di guerra’, nel contesto di Guerre; ma il tema è più generale e significativo. E’ la sposa cui muore il marito, è lo ‘scandalo’ dell’amore ferito (diviso) – non dal peccato (tav.12-13) ma dalla morte. È la bellezza visitata dal lutto: amore e morte. 

Dov’è il ‘fare brutto’ di Rouault? Qui è una donna attraente, tanto più in quanto coperta da ‘veli’;71 che sono gramaglie. Il pallore del viso è sottolineato, dipinto, anche col nero di ciglia e sopracciglia: una maschera. Il nero avvolge la figura, ma anche la circonda: c’è qualcosa di tenebroso negli arabeschi fluttuanti, che circondano e vestono e anche disegnano la figura – linee e chiaroscuri – in tutto tondo. L’ampio grembo almeno allusivamente è fecondo. 

La tavola è autobiografica: ricorda la vedovanza della madre; e vedi appunto La vedova72, 1912: nell’anno di ideazione del Miserere. La bellezza di cui si tratta è qui ovviamente, giusta la citazione oraziana, assai più della bellezza fisica della donna: è ciò che l’artista e il poeta perseguono costantemente, senza poterla mai completamente raggiungere. È dunque anche questa, della bellezza muliebre velata, una metafora del divino, simile a quella del velo della Veronica.

Si conclude con il maggiore disastro: il bombardamento della città, il racconto della guerra nella vita civile. È come un ‘campo di battaglia’ (molto simile a una tavola con questo titolo, abbandonata nella selezione delle 58). Il paese (metafora dell’intera Francia) distrutto, il fumo degli incendi, in primo piano i morti distesi: non poteva darsi una immagine più efficace dell’espressione: Anche le rovine sono crollate, della tav. 34. 

Questo ‘paysage de guerre’ è, nel modo più emblematico, la ‘strage degli innocenti’. È anche un ricordo, per Rouault, de Il Cantiere, 1897: truce ‘paesaggio’, dove due macellai si stanno sgozzando. La tav. 44 è orizzontale (come la 24 e la 26: terre desolate) e come stesi sono i morti, in primo piano. Questi sono significativamente tutti uguali, anche nell’atteggiamento: sono dei ‘manichini’. Si può notare che il bambino della tavola 42 (destinato a questa fine) è stato disegnato anche lui come un bambolotto. Si noti però, nei morti, anche l’erezione del capo: significa forse (vedi le tav. 47 e 48) una ricerca di luce oltre la morte. «Non omnis moriar» (non morirò del tutto): è sempre Orazio

La tavola 45 – «Squelette debout (sans Képi)», commenta Rouault – segna il passaggio al fronte. La didascalia, che allude alla vita di coppia, e la simmetria rispetto alla 44, mettono in relazione la 45 alla 43: il soldato, morto al fronte, alla vedova che lo piange. Il riferimento alla coppia 12-13 porta a concludere che il peccato (contro l’ amore) produce la morte. La didascalia era: Homo homini lupus, poi attribuita alla 37. Questo (oltre all’immagine) collega la 45 alla 37; ma qui non c’è ‘trionfo’ della morte, bensì soltanto orrore e pietà. E se l’orrore ripropone la tesi del pessimismo dell’artista, la pietà – che vedremo pienamente espressa nelle tavole successive – ne corregge sostanzialmente (cristianamente) il tiro. 

Con la didascalia della tav. 45 Rouault ripropone anche il problema – implicito nelle due introduzioni teologiche – del ‘toujours’; nel rapporto tra tempo della vita e tempo della morte: per alcuni aspetti, infatti, si muore mentre si vive. La tav. 45 si riferisce anche a stati d’animo dell’artista – e si veda la poesia L’artiste. Si noti anche un altro modo di mostrare lo scheletro, nel De profundis del 1938: qui la didascalia è quella della tav. 47.

Tavole 46-48

Il tema, nelle tav. 46 e 47, è la morte del soldato. Lo vediamo ferito (tav. 46) e poi moribondo (tav. 47). È la conclusione del discorso sulla morte inaugurato dallo scheletro? (tav. 37) Nient’affatto: il grottesco ‘trionfo della morte’ è stato introdotto a mostrare, per contrasto, la ‘pietà’ annunciata dalle prime due tavole del secondo capitolo; che trova qui la sua più alta espressione e nella tavola 48 la sua sintesi simbolica, il cui significato va oltre la morte. L’immensa pietà, che domina le tavole 46 e 47, non viene dagli uomini ma da Dio: il soldato ferito è ‘portato dagli angeli’; e in punto di morte la sua solitudine è accentuata dalla presenza di gente che chiacchiera senza curarsi di lui. Ricompare (nella 46) il velo della Veronica; che diventa (nella 47) l’unica luce (la fede) e l’unica speranza del soldato che muore. Il capo è leggermente rialzato, come a ricevere la luce. La tav. 48 assomiglia alla 47: un corpo disteso, il capo rialzato rivolto a qualcuno. Il verso della figura distesa è però opposto, il capo è completamente (e stranamente) rialzato, scompaiono i chiacchieroni, il velo col volto di Cristo diventa persone velate - forse suore, o infermiere -. 

Rouault scrive: Al torchio l’uva fu pigiata. Cosa significa? La didascalia si riferisce a una immagine popolare assai diffusa nei paesi del nord: ‘Gesù nel torchio’. Allude al sangue sgorgato dal corpo di Gesù e, insieme, all’uva, al vino, alla festa della risurrezione. Sembra ci voglia dire, Rouault, che risurrezione non è soltanto un mistero che aspettiamo si realizzi nell’aldilà; ma in concreto - specie nel momento della sventura - è (ben oltre le chiacchiere) l’aiuto possibile e l’amore, che in Cristo propriamente significa: «Alzati e cammina!». 

La ‘pietà’, nella tavola 46, è efficacemente significata dalla mite ricomparsa del velo, con il quale Veronica poté consolare Gesù. La 46 e la 47 hanno questo ‘velo’; che non è soltanto consolazione del soldato che muore, ma significa fede e speranza in Cristo del cristiano che muore. 

Nel racconto che ne fa Rouault nelle due tavole, non c’è altra consolazione: si muore, in definitiva, da soli. Si veda tuttavia il dipinto: Il clown ferito (1932) – che corrisponde al soldato ferito portato dagli angeli, della tav. 46 –, dove il clown ha per ‘angeli’ due clowns come lui. Lo stesso messaggio di solidarietà verrà introdotto come vedremo nella tav. 48 del Miserere, con un sostanziale significato di risurrezione; ma nelle precedenti tav. 46-47 non ci sono consolatori che non siano personaggi del cielo. Lo sono quelli che Rouault ci presenta nella tav. 46, ma chi sono? L’iconografia è del «Soldat blessé porté par les anges», come nota l’artista. Quello di destra è un angelo: vedi la potente figurazione espressionistica; e ha le ali. A sinistra, il fondale ‘diviso’ mette in evidenza la testa, coronata di aureola a raggiera, di una diversa figura, che non ha ali; ed è in compagnia di un bambino. La Vergine col Bambino?77 Se questa è l’interpretazione, i due – che l’iconografia tradizionale pone incoronati sul trono –, qui sono discesi fra noi e si danno da fare col ferito. È, complessivamente, l’immagine di un ‘cielo’ non immobile, ma pienamente coinvolto nelle nostre vicende: toujours... Iconograficamente, la tav. 46 è una ‘deposizione’, un ‘trasporto’78 o una sepoltura di Gesù: si allude alla Passione. La conferma si ha nella didascalia (forse suggerita da Louis Massignon) di derivazione indiana. Il legno di sandalo (‘santalum album’, in India ‘sugandha chandan’), con le proprietà che la didascalia simbolicamente descrive, è utilizzato per fabbricare oggetti di culto da varie religioni (induismo, buddhismo, cristianesi­mo...); ed è il legno importato da Salomone per la costruzione del tempio di Gerusalemme

Il fondale ‘diviso’ è anche nella tav. 47; e a sinistra, in luogo della ‘figura celeste’ della 46, ce ne sono altre, molto terrestri, perse in chiacchiere. La solitudine umana del soldato che muore ne viene così accentuata. Questa soluzione è stata presa da Rouault dopo una ‘prova’, nella quale lo spazio a sinistra non ha altre figure. Unica compagna e unica luce: il volto di Cristo sul velo. In una delle tavole scartate del Miserere, il soldato (morto) è inserito nell’ambiente della tav. 44 (paese distrutto) in luogo dei morti del primo piano. Si veda anche il De profundis del 1946, dove il soldato è vegliato da due figure: una velata e un bambino; il che forse rinforza l’interpretazione data, della tav. 46. Il primo riferimento per la tav. 47 è peraltro il De profundis del 1912, eseguito in occasione della morte (in quell’ anno) del padre dell’artista. La tav. 47 – immagine tra le più alte del Miserere – esprime la solennità e la solitudine della morte («Il n’est que de mourir», annota l’artista); e insieme il conforto della fede. Non solo il viso ma anche le mani del morente sono illuminate da quell’unica luce, che è interiore (al cuore). Rispetto alla 46, c’è uno zoom sulla figura del morente (ora distesa) e in particolare sul volto. Anzi, sui due volti; dato che viene in primo piano, e si fa vicino − e definito e chiaro (vivo) al volto del soldato − il volto di Cristo. La composizione faccia-profilo si risolve significativamente nel ‘faccia a faccia’ e in una corrispondenza (di proporzioni e di luce, di intensità espressiva) e simbolicamente nell’ identità, dei due volti. Si noti la testa del soldato rialzata (senza cuscino): attratta dal ‘velo’. È già un’ allusione alla risurrezione.

Se si assume ad esempio per la tav. 48 (immagine e didascalia) il Cristo nel Torchio, della bottega di Dürer, ad Ansbach (Germania), si notano i seguenti elementi: 1. La macchina (il torchio); 2. Gesù, pigiato con l’uva nel torchio; 3. La Trinità, formata dal Padre e dal Figlio e dallo Spirito Santo: Dio che torchia e, nel Figlio, è sottoposto al torchio; 4. L’ Eucaristia, sotto le due specie, raccolta da chi rappresenta la Chiesa, in uscita dal torchio; 5. Maria addolorata, trafitta da spade.

Nella tav. 48, la macchina è ben rappresentata dalla struttura ortogonale corpo- testa della figura di Gesù, distesa e schiacciata sul lato inferiore dell’immagine. Lo schiacciamento è anche quello di una sepoltura: «Petite père est mort à la guerre», annota l’artista. Morto e sepolto, ma la sepoltura è ‘il torchio’. Chi torchia? Notiamo, nel ‘cielo’ dell’immagine, in luogo del ‘velo’ della tav. 47, una forma circolare composita, che potrebbe significare Dio, uno e trino (in luogo del noto ‘triangolo con l’occhio’); o anche un gruppo di persone velate, testimoni o ‘pietose’ («femmes qui compatissent»); certo con un ruolo diverso da quello dei ‘chiacchieroni’ della 47. Iconograficamente, sono le ‘donne al sepolcro’. Figure pietose sono quelle dei dipinti, con la stessa didascalia, del 1934 (olio 48x61) e 1939 (olio 50x65); quest’ultimo col ‘velo’ della Veronica. Si veda anche Veronica del 1945 (olio 50x36), con la croce sul ‘velo’ che indossa. La circolare forma composita, che sovrasta (schiaccia) il corpo del ‘torchiato’, è ‘trinitaria’, comprendendo due volti in una faccia-profilo, con un arco allusivo non antropomorfico.

L’immagine è dunque sibillina, ma sufficiente a suggerire una ricca gamma di significati; il principale dei quali è la Passione e la Risurrezione di Cristo; risurrezione che si rinnova nella solidarietà e nell’amore, dunque nel superamento della solitudine e dell’orrore de­nunciati nelle tavole precedenti. La didascalia, forse suggerita da Louis Massignon, potrebbe essere una citazione da Ibn al-Fârid, Umar

Tavole 49-51

Sia il primo che il secondo capitolo comprendono una galleria di ritratti. Nel primo sono le donne del peccato (tav. 14-17). Nel secondo sono i protagonisti della guerra. Sono anzitutto (tav. 49-51) i signori della guerra, incisi da Rouault nel modo più grottesco: il comandante (tav. 49) che mette sull’attenti anche i suoi baffi; Bertha Krupp (tav. 50) dei cannoni che bombardarono Parigi nel 1918; e un feldmaresciallo (forse il kaiser) tedesco (tav. 51) - o un vescovo? - quasi genio del male. 

Con la tav. 49 si resta al fronte; e si passa a presentare i protagonisti. Il primo ne ricorda uno già incontrato (tav. 40). Lo ricorda per la mole; perché è un militare, piuttosto ottuso; e per il gesto professionale, che qui è di comando. Il dito (accentuato dalla sua ombra) è un’arma impropria. La didascalia – probabilmente un proverbio medioevale francese – incalza il baffuto. Un mento così altezzoso l’ abbiamo già incontrato in una galleria di signore (tav.16); ma non faceva ridere. Una caricatura? Non fa solo ridere. Satira politica? Rouault attacca il potere oppressivo, ma (non è Grosz) in lui non c’è mai condanna senza pietà. Si può parlare di grottesco: muove al riso, ma non rallegra; colpisce (la vita borghese, o il potere) ma anche muove a pietà; e l’aspetto esterno è sempre una maschera. 

Mi diceva qualcuno: Pare ‘Giovanna d’Arco’ -, con riferimento a un Rouault del 1951. Rouault era devoto a Giovanna. Non certo a lei (Piccola cavallerizza) assomiglia il militare, bensì (per fierezza) al (di lei) enorme cavallo. Anche il militare - «Allemand (avec casque)» - che si erge dominatore, è in realtà dominato.

A proposito di quelle signore (tav. 14-17) anche questa non fa ridere; e a proposito del ‘comandante’ (tav. 49) che fa ridere, questa (triste e malvagia) in quanto fabbricante di armi ha più potere di lui. È di quei ‘tipi di donne’ (ma è una donna?) disegnate, tra il 1915 e il 1930, in ritratto frontale (come questo), scorcio o profilo, soprattutto per Les Fleurs du Mal. Si veda, molto simile, la Courtisane de Face (1927) che mostra i dentini (alludendo allo scheletro). 

L’ identificazione con Bertha Krupp è autorevole; anche se l’artista annota: «Frau Kapott». L’immagine è anche tratta da quella della Francia qui disastrata dalla guerra. La presentazione frontale conferisce una sorta di satanica sacralità al ritratto, che fa il paio col profilo del ‘ridicolo’ precedente (tav. 49).

È un’intera collezione, nel Miserere, quella dei personaggi ‘genio del male’. Eccone un altro, forse concepito da Rouault nell’ anteguerra. È del 1911 un Mister X che potrebbe assomigliargli, ma ancora ‘umano’. Si veda poi il VonX 1915. Questo ‘feldmaresciallo’ della tav. 51 è quasi frontale come Bertha (tav. 50) e anche più ‘sacrale’ e maligno, per il suo aspetto e per l’allusione alla celebre cattedrale di Reims bombardata dai tedeschi. Allusione che a ben guardare non è solo a didascalia: il busto del militare è, come per una metamorfosi, ‘architettonico’; e sull’architettura umana la testa si erge come l’ange au sourire (statua alla quale l’artista era affezionato) sulla cattedrale. Ma non è un sorriso. 

Della cattedrale ha anche la croce, che Rouault non può aver messo con intenti puramente decorativi: ‘croce di guerra’, o il personaggio è anche un vescovo? Bisogna accorgersi che una sottile polemica è svolta, nel gioco di maschere del Miserere, non solo nei confronti del potere laico, ma anche (e con buone ragioni) verso quello ecclesiastico. Decorativo è anche il disegno arabescato sul copricapo, ma ci sono dei simboli: è una ‘M’, riferita a Fleurs du Mal? È un’aquila? – simbolo dell’impero a partire da Costantino. Probabilmente Rouault allude, con questo personaggio, al kaiser Guglielmo II.

Tavole 52-53

Un quarto personaggio (tav. 52) - per il quale non c’è sarcasmo - è il vero protagonista della guerra: il soldato. Le tavole 52 e 53 sono come una sola: faccia a faccia, sono profili complementari. Il soldato ha ‘indurito la sua faccia’, il suo - direbbe Ungaretti - è un «pianto che non si vede». Il pianto diventa però esplicito (perciò anche consolante) sul volto della Vergine addolorata. Si torni alla recluta (tav. 40): il profilo e lo sguardo del soldato della 52 sono gli stessi; l’obbedienza richiesta è la stessa: la più umiliante, perché imposta senza alcuna motivazione, che non sia la ‘ragione di stato’ e la legge: Dura legge, ma legge. La corona della Vergine della tavola di fronte sembra formata da innumerevoli lacrime, come gemme: «Preziosa agli occhi del Signore è la sofferenza del giusto». Qui è la madre che consola il figlio. Ed è la ‘madre celeste’: si affaccia il tema del cielo. Si affaccia con Maria. 

La galleria dei protagonisti della guerra va dalla tavola 49 alla 51, con chi comanda; e alla 52 col principale dei protagonisti: il soldato, cui spetta obbedire. Se si guarda al collo, e stando al proverbio della tav. 49, il cuore del soldato è più nobile di quello del comandante. Al soldato, sottomesso alla legge militare, può essere accostato Jean-François (tav. 25) sottomesso alla legge di un lavoro alienante. 

Il soldato della tav. 52 è di profilo e assomiglia alla recluta della 40, con un riferimento autobiografico. L’importanza del soggetto è mostrata anche dalle numerose tavole eseguite e poi scartate, nella selezione delle 58 del Miserere; dove il soldato è di faccia, o di profilo mentre dorme, o mentre muore, anche con il velo della Veronica; e anche morto e di scorcio. Il corrispondente pittorico è un olio del 1937. È anche interessante un parallelo con un Buffone del 1938 che senz’altro assomiglia al nostro. Il buffone «pitre» contrariamente al clown è una vittima; come lo è di fatto il soldato. Il quale è qui proprio immagine di «terra arida e senz’acqua», che (in tempo di Avvento) invoca: «Rorate».

Come in Cristo nel torchio di Ansbach, così pure nel Miserere troviamo la Vergine ferita da spade: ancora una volta al dolore dell’uomo (tav. 4, 52) è associata la Passione del Figlio di Dio. 

Le tavole 52-53 sono complementari: quasi un ‘faccia a faccia’, opposto nel significato a quello della tav. 40. Le due tavole sono complementari anche nel rappresentare la Francia martoriata dalla guerra, con significato opposto a quello della tavola 50. Infine lo sono nel rappresentare la maternità di Maria. Questa, implicita nelle tav. 13 e 42, è esplicita nella coppia 52-53 (la 53 non è ‘Vergine col Bambino’ perché il figlio è soldato) e poi, come vedremo, nella 56. L’espressione Vergine dalle sette spade potrebbe nuovamente anche alludere alle responsabilità della Chiesa nella guerra, e alla cosiddetta ‘benedizione delle armi’. Almeno per le ‘perline come lacrime’ sulla coro­na, un ricordo della tav. 53 si ha forse nella Regi­na del circo del 1948 (olio). Più importante è il riferimento al Vecchio Re del 1937, che forse allude al tramonto di David: su di lui tutto il dolore del mondo. In quest’opera potente è il ricordo di ambedue le tav. 52-53; e anche della 27 il cui significato è antitetico.

Tavole 54-55

Nella tavola 54 è stata vista la risurrezione dei morti. Occorre notare il forte carattere macabro e grottesco della scena. Splendida invece è la 55, che apparentemente non ha a che vedere con la risurrezione, ma questo ne è il significato profondo. Il primo della fila, nella tav. 54, porta la bustina militare come quello - lupo all’uomo - della tav. 37; e si fa largo rilasciando un ceffone al secondo; tanto che l’ultimo, ancora dentro la tomba, sembra domandarsi se valga la pena di venirne fuori. In effetti qui continua la guerra. Sul fondo, delle tre croci sprofonda (resa inutile) quella centrale. È una risurrezione? Purtroppo sì: coerentemente col suo discorso teologico, Rouault disegna qui una infernale ‘risurrezione per la morte’. Per ribadire, nella successiva tav. 55, un concetto già espresso nella 48, dove compaiono misteriose e pietose figure a consolare il soldato. La coppia dell’unica tavola 55 si riallaccia a quella delle due tavole 52-53 sul tema della consolazione. Qui: Il cieco ha consolato il veggente. Sembra voglia dire, Rouault, che risurrezione (per la vita) non è soltanto un mistero, che aspettiamo si realizzi nell’aldilà; ma in concreto – specie nel momento della sventura – è l’aiuto reciproco e l’amore. 

All’invocazione dell’umiliato (tav. 52) il Miserere risponde (tav. 53-58): l’umiliazione e la morte hanno un senso in Cristo; e la morte non è senza risurrezione (tav. 28-29, 46-48). Ma non è un ‘colpo di spugna’ su qualsiasi tipo di esistenza. 

Oggi si parla di risurrezione come sinonimo di salvezza, ma questo deve confrontarsi con la Scrittura e per i cattolici con il Magistero della Chiesa. Rouault, verso la conclusione del Miserere, sfata questa illusione, mostrando (tav. 54) la ‘risurrezione per la condanna’. Il collegamento con la tav. 37 è evidente, ma mentre nella 37 è l’apparente ‘trionfo della morte’, qui lo stesso si rivela come condanna della morte e di chi sia ostinatamente ‘vissuto’ all’ombra della morte. La scena è tragicomica: il primo tra i risorti intona l’inno di guerra (è forse la carneficina di Verdun: paradigma della guerra). I morti sono militari ancora in fila e si ignorano reciprocamente, al punto da urtarsi malamente. La luce sinistra della tav. 54 è il baratro di quella ‘solare’ della 29. È il baratro che fa sprofondare la croce di Cristo, nostra salvezza. Si vedano: il Frontespizio per Carnets de Gilbert (1931); l’acquaforte a colori per Les Fleurs du Mal (1936-38); e Le tre croci (1938, con due crani). La croce ‘sprofondata’ della tav. 54 corrisponde al ‘Cristo dimenticato’ della 20; e la conseguenza ne è la francescana «morte secunda» ben diversa da «sora nostra morte corporale». Una variante della 54 si ha nella Baia dei trapassati, tema trattato più volte da Rouault nell’incisione; e vedi l’olio 1938 (58x44).

Il riferimento più importante per la tav. 55 è la misteriosa 48, nel fornire una immagine della ‘solidarietà’ che è dare la vita. In essa Cristo si fa presente operando già in vita una sorta di risurrezione. Ecco nella 55 una luce ben diversa da quella tragica della 54: luce umana e discreta, a significare ‘la Luce’. La 55 è autobiografica, secondo due diverse versioni. Ambedue si riferiscono ai rapporti di Rouault con persone non vedenti: un professore di matematica, o (altra versione) un mendicante, con il quale l’artista amava conversare. È Rouault il vedente (o ‘veggente’), condotto e consolato dal cieco. La figura del primo è a testa bassa, mentre il secondo (dall’occhio nero) ha lo sguardo al cielo e ne è illuminato, di una luce interiore. 

L’artista annota: «Aveugle et paralytique», dove Rouault è il paralitico, al quale il cieco consente di camminare. Le figure delle tav. 54 e 55 sono antitetiche, ma sono tutti ciechi. In particolare si fronteggiano e si contrappongono lo scheletro minaccioso della 54 e il cieco che conduce, della 55: ambedue hanno la faccia al cielo, ma soltanto il secondo “prende luce”. Le due figure della 55 sono a torso nudo e come ‘velate’, quasi da un unico velo. La metafora potrebbe essere quella – suggerita anche nella tavola 43 – della Bellezza velata allo sguardo umano; e dunque di Dio («ubi charitas ibi Deus») velato come dal ‘velo della Veronica’; e ‘visto’ nella fede. Le due figure procedono contromano, chiudendo la coppia antinomica (tav. 54-55) delle due ‘risurrezioni’. La figura del cieco corrisponde anche a quella (antinomica nel significato) di Orfeo, della tav. 27. Le due figure insieme, con significato positivo, corrispondono anche alle due separate, con significato negativo, delle tavole 5-6. 

Notiamo infine la corrispondenza, verso la fine dei due capitoli, dei due incontri: di Tommaso con Gesù e di due di noi (incontro con l’ ‘Altro’). Anche noi vorremmo, negli altri, poter ‘vedere e toccare’ Gesù, ma… chi più vede e tocca è in ragione della fede della speranza e della carità. Perciò forse Rouault non ha inserito esplicitamente la figura del Risorto nella seconda come nella prima parte del Miserere; ma l’ ha data per implicita nella tav. 55. Un senso della solidarietà umana, soprattutto tra i ‘semplici’, pervade la pittura di Rouault. Si vedano i Tre clowns del 1917 e il Clown ferito del 1932

Scrivevo che, con Maria, nella tav. 53 si affaccia anche il tema del cielo: il tema cioè dell’aldilà, che è pure una imprescindibile dimensione della nostra fede. Questo tema del cielo e di Maria in cielo ora (con la tav. 56) non solo si riaffaccia, ma assume tutto il suo valore: che non è solo consolatorio, ma di fondamento della fede e della salvezza. Rivediamo la ‘maternità’ della tav. 13: da qualcuno è stata interpretata come una ‘Vergine col bambino’. Se lo è, resta comunque soprattutto madre tenerissima, in un rapporto accentuatamente umano col figlio. Umanamente ‘dolorosa’ è la madre della tav. 42, con la didascalia tratta da Orazio: Guerre detestate dalle madri. Anche l’Addolorata della tav. 53 è vista più nella vicinanza umana al muto dolore del soldato che nel suo ‘essere in cielo’. È invece questa (tav. 56) una ‘Vergine col Bambino’ che ricorda immagini antiche. La sua figura, ben radicata, si espande dalla terra, a riempire il cielo. È figura solenne. Il Figlio per un aspetto è già adulto; e regge con una mano, non un giocattolo, ma l’Universo. Maria è qui la Madre di Dio. 

La tav. 56 è un’altra ‘maternità’, dopo quelle della 13 (affettiva) e 42 (dolorosa); e quella allusa nella 46 (attiva e pietosa): una ‘maternità’ esplicitamente ‘divina’, celeste e gloriosa; espressa con linguaggio monumentale e splendidamente ‘antico’. La figura di Maria, ben radicata in terra, riempie il cielo. Teologicamente, la madre della ‘radice di Iesse’ (Gesù) è lei stessa radice: madre dell’Uomo e madre di Dio. Il ‘radicamento’ è espresso dalla composizione, espansiva verso l’alto e ‘esplosiva’, nelle forme (anche del paesaggio) a significare la fecondità della Vergine; e di Gesù dalla Vergine. Ambedue guardano verso di noi, Gesù tiene il cosmo e l’offre alla madre. Uno studio, forse del 1914, per il Miserere, mostra Gesù con questo ‘radicamento’; e lo stesso si nota in una Contadina del 1938. Il paesaggio, elementare – sotto quel cielo, colline e una casa – è bellissimo e pacificato; e genera sacre figure, come da una conchiglia del mare sorge la Venere pagana di Botticelli, ma qual è in arte il confine, tra sacro e pagano?

Tavole 57-58

Per Maria a Gesù. Siamo in cielo o in terra? Gesù, abbiamo detto, è risorto e asceso al cielo, ma è rimasto nel nostro cuore (tav. 4) e soffre con noi, tanto che «sarà in agonia fino alla fine del mondo» (tav. 35). Rouault, per concludere, anzitutto (tav. 57) risponde all’interrogativo aperto dalla tav. 52 sul valore dell’obbedienza. Qual è il fondamento dell’obbedienza, se non è semplicemente la legge o la ragione di stato? Risposta: Gesù è l’obbediente per amore, fino alla morte e alla morte di croce. 

A questa obbedienza noi siamo chiamati: il suo fondamento è l’amore. Torna però anche la domanda fatta alla fine del primo capitolo: crediamo noi veramente che Gesù è risorto e vive e soffre in noi? È lui la nostra speranza? La risposta è ribadita dal velo della Veronica: senza ‘toccar con mano’ crediamo (tav. 58): È per le sue piaghe che noi siamo guariti. 

Se la tav. 3 (Gesù sempre flagellato) della prima parte, corrisponde nel significato alla 35 della seconda; la 20 e la 31 (Gesù crocifisso), che accompagnano Gesù sulla croce nella prima, corrispondono alla 57 della seconda. La condizione e la storia dell’uomo, e della guerra nell’uomo e nella società umana, sono guardate nel Miserere con l’occhio della fede; e con una attribuzione di senso alle sofferenze umane, illuminate dalla Passione di Cristo. Lo sguardo resta sul crocifisso (tav. 57) che non solo illumina il dolore, ma è fondamento di speranza in ‘terre e cieli nuovi’, annunciati nelle tavole conclusive della prima parte. Alla continuità formale stabilita dall’artista tra le immagini 3 e 20, corrisponde quella tra le 35 e 57. In quest’ultima si accentua lo ‘zoom’, a cogliere la testa - qui dolente e raggiante, meno reclina. La comparsa del braccio orizzontale della croce trasforma l’implorazione nell’abbraccio. La croce è quella a braccio verticale largo, della 20; con raddoppio del braccio orizzontale a margine inferiore dell’immagine; dove (per ‘cancellazione’) scompare, rispetto alla 20, il ‘paesaggio infernale’: Cristo crocifisso è fondamento di speranza perché ha ‘già’ sconfitto le tenebre del Male. 

Come il Risorto della 21 e il Crocifisso della 31, così il Crocifisso della 57 rappresenta la vittoria definitiva, oltre il toujours. Di qui la testa ‘raggiante’, come quella del Risorto. In sostanza, la 57 riassume conclusivamente la ‘parente­si’ 20-21 che la 31 riassume nella prima parte. Quanto alla natura della croce, che resta da portare (cioè al significato del dolore) essa è, giusta la didascalia, ‘obbedienza’ per amore.

Il secondo capitolo del Miserere si conclude come il primo: col ‘velo della Veronica’; che abbiamo visto utilizzato, specie nel secondo, come richiamo alla fede. C’è un equivoco, nel quale non cade Rouault, quando si dice che il cristiano annuncia la risurrezione di Cristo (dunque, una splendida luce). Il cristiano annuncia la Pasqua: la sua fede, cioè, che la morte, che ognuno è costretto a verificare, non è l’unica, né l’ultima prospettiva della vita. Il ‘velo’ della tavola 58 è costruito in modo da suggerirne l’ inconsistenza; e persino l’immagine che vi è impressa non è quella (plastica) della tavola 33; ma è impressa su un velo (bidimensionale) che va a scomparire. L’immagine (velo e volto) è aperta - come lo è il disegno a spirale - a un’altra sottostante; che collega l’ultima tavola (58) con la prima (34) della seconda parte, laddove si parla di ‘rovine’: l’immagine sottostante allude alle fondamenta per una ricostruzione.

Il cammino inaugurato dalla tavola 4 – nostro pellegrinaggio di ricerca della verità – si conclude qui con la verità che mi si svela. ‘Come attraverso un velo’ noi crediamo in Cristo, che in noi e con noi combatte l’unica ‘grande guerra’: contro il peccato; e contro la morte, la quale non è nient’altro che la conseguenza del peccato; per costruire in noi quel ‘noi’ che siamo destinati a essere, nell’amore.